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I POST PIU' BELLI

IL CULO DELLA MANGANO

Questa mattina mia moglie, portandomi il caffè, mi ha svegliato, interrompendo un sogno molto particolare. Non so se avete presente quei sogni che vorreste continuassero, tanto sono piacevoli. Ebbene, stavo sognando la Mangano, Silvana Mangano.

Mentre sorseggiavo il caffè mi beavo a ripensare le scene del sogno, e la cosa che mi ritornava alla mente con maggiore frequenza era il didietro di questa stupenda signora. Un bel didietro, solido, sostanzioso, quasi altero. Nelle sue misure oramai desuete mi pareva di leggere i canoni di un mondo molto diverso da quello attuale. Il confronto con le anoressiche mannequin nostre contemporanee fu inevitabile, e mi condusse con prepotenza ad un confronto tra due epoche, quasi che il didietro delle donne fosse l'allegoria di una società, e racchiudesse nelle sue misure la chiave di lettura di un ben più vasto orizzonte sociale.

Il didietro della Mangano, nelle sue forme abbondanti e rassicuranti, era il coronamento di due gambe altrettanto solide, su cui posava con la stessa grazia con la quale una trabeazione ben proporzionata posa sulle colonne di un tempio classico. Includeva, nelle sue rotondità, quell'insieme di valori condivisi da ogni ambito della società coeva. L'economia, il lavoro, la famiglia, avevano anch'essi qualcosa di concreto, di solido, di stabile.

Il didietro della mannequin è inconsistente, e poggia su due gambe decisamente precarie. La concretezza lascia il posto all'immaginazione, al virtuale.

Ed effettivamente questa fase terminale di una certa modernità è caratterizzata dall'annichilimento di valori quali la solidità e la concretezza, e dall'esaltazione del futile, del virtuale, della fuffa. L'apoteosi di questa vera e propria rivoluzione si è verificata nel momento in cui la finanza ha soppiantato la produzione.

Le ragioni della finanza hanno la priorità sulle ragioni dei popoli. E mentre i culi hanno perso consistenza e sostanza, anche la dignità delle persone ha subito la stessa sorte. Tutto questo mi rattrista molto, e cerco di mitigare questa tristezza ripensando al sogno di questa notte.

RIFLESSIONI PRIMAVERILI

Stamani ho approfittato della giornata quasi primaverile per recarmi in campagna. C'è un posto, ai piedi del sub appenino Dauno, che amo in modo particolare. La sua caratteristica è quella di essere praticamente isolato dalla "civiltà". Lo sguardo spazia in ogni direzione senza incontrare capannoni, tralicci elettrici, strade importanti. Questo mi consente di godere di due cose di immenso valore: il vuoto ed il silenzio.

Il rumore di fondo che accompagna le nostre giornate, e di cui non ci rendiamo più nemmeno conto, è sostituito dal suono della vegetazione mossa dal vento e dal cinguettio di qualche uccello, pervadendo l'atmosfera di un impagabile senso di pace.

E' questo che mi spinge a queste fughe innocenti: la ricerca di qualche momento di serenità, e la sensazione di essere fuori dal meccanismo infernale della nostra modernità. Mi sento, per breve tempo, libero dall'obbligo della crescita, del consumo, del debito, della competizione, dell'innovazione. Mi sento libero dalla ragnatela delle norme, dei regolamenti, delle certificazioni, delle carte, dei registri. Libero dalla schiavitù di dover sostenere con le tasse una gigantesca sovrastruttura inefficiente e parassitaria, che sembra espandersi sempre più, alla maniera di una metastasi incurabile.

La cosa che maggiormente mi gratifica è la sensazione di sciogliere, per breve tempo, le catene che mi tengono legato ad un meccanismo al quale sento di non appartenere, ma al quale sono costretto mio malgrado. E' come se fossi costretto a partecipare ad un gioco al quale non voglio giocare, e nel quale vincono sempre gli stessi, con le loro carte truccate ed i loro piccoli imbrogli. Alla fine di ogni giocata mi ritrovo perdente, e con debiti che sarò costretto a pagare.

Se cerco di escludermi da questo meccanismo perverso mi chiamano asociale, egoista, venale. Mentre in realtà desidero solo fare la mia vita, senza rompere i coglioni a nessuno e senza che nessuno li rompa a me. Questo, purtroppo, non è possibile. I bari sono molto potenti, e mi bastonerebbero, applauditi dagli altri giocatori plagiati e resi schiavi inconsapevoli da questi astuti e cinici prepotenti.

Alla maniera di un intenditore che degusta un buon vino cercando di carpirne le più sottili sfumature, così respiro profondamente, gustando di questa aria meravigliosa il profumo inconsueto, foriero di ataviche ed inconsce reminiscenze. E mentre faccio questo mi chiedo per quale motivo sono costretto a finanziare una televisione che non guardo, dei giornali che non leggo, dei partiti che non voto, delle infrastrutture che non uso, e decine di migliaia di dirigenti che fanno un lavoro che non mi serve. Mi chiedo per quale motivo devo pagare per i servizi che uso un notevole sovrapprezzo, necessario a finanziare l'inefficienza e lo sperpero, ed il magna magna che da sempre rimpingua le tasche di pochi furbacchioni che vivono sul mio lavoro. Sono stanco.

Sono stanco di non poter scegliere. Sono stanco del fatto che altre persone surrogano la mia libertà, e pretendono di decidere per me, facendomi comunque pagare il conto. Vogliono convincermi che questa è la democrazia, il migliore dei sistemi possibili. Ma io so che è falso. Questa è una oligarchia camuffata da democrazia, dove una minoranza esercita il potere a spese di quello che chiamano popolo sovrano: una balla colossale. Se davvero il popolo fosse sovrano coloro che governano agirebbero secondo la volontà del popolo. Non lo fanno, adducendo la giustificazione che il popolo non sia in grado di decidere cosa sia giusto e cosa sia sbagliato.

Volgendo lo sguardo ad oriente vedo l'immensa pianura sfumare verso il cielo. Sembra infinita, ma non lo è. Io so che laddove terra e cielo si confondono inizia il mare. D'altronde nulla è infinito. Più o meno grande qualsiasi cosa ha un limite. Fa parte del sapere condiviso il fatto che nulla può crescere all'infinito. Eppure sembra che questo assioma sia sconosciuto all'oligarchia parassitaria che ci governa. Hanno creato delle strutture sempre più grandi e dispendiose, nella convinzione che comunque si sarebbero trovate le risorse per mantenerle. Ma sembra che la situazione sia sfuggita di mano.

Hanno creato il fardello del debito pubblico per sostenere spese che non si potevano sostenere. Ora che non è più praticabile la strada dell'indebitamento piuttosto che ridimensionare l'apparato pubblico, cercano nuove risorse tra la gente, utilizzando gli strumenti più indegni. Ogni sindaco si sente autorizzato a rastrellare soldi attraverso multe, parcheggi a pagamento, ticket di ingresso alle città, aumento di tarsu, imu, e chi più ne ha più ne metta. Eppure non sarà sufficiente, perché la spesa aumenterà più delle entrate. Alla fine tutto collasserà.

Inizierà con il collasso delle famiglie, seguirà quello delle aziende. A quel punto collasseranno lo stato, le regioni, i comuni. E di tutto questo dovremo ringraziare la cecità dei politici, ma anche della gente.
Proprio ieri leggevo che Visco invitava a lavorare di più e più a lungo. Sono rimasto basito. Ma questi grandi luminari delle cose economiche ci prendono in giro o, cosa davvero grave, in realtà non capiscono una mazza? Ma questi davvero credono che l'aumento della produzione possa non avere limiti?

Quanti palazzi, quanti capannoni, quante strade dobbiamo ancora costruire? Quante automobili dobbiamo acquistare? Quanta carne dobbiamo mangiare? E quanto petrolio dobbiamo bruciare?

Ma questi "professori" si rendono conto che l'unica crescita possibile riguarda solo i beni immateriali? La ricerca, il benessere psicofisico, la cultura, la socialità? La gente non desidera cambiare l'auto ogni 3 anni, la gente desidera avere tempo libero, leggere un libro, non avere l'affanno di trovare il secondo lavoro per soddisfare il bisogno di inutili e futili consumi. La gente desidera certezze, tranquillità, libertà.

E' naturale che coloro che si sono arricchiti grazie ad un certo modello economico tentino in tutti i modi di perpetuare questo modello. Sono a tal punto accecati dall'avidità da non rendersi conto che la festa è finita. Quando avranno terminato la loro opera di predazione e creato il deserto, non avranno più nessuno che sosterrà la loro voracità. Stanno tagliando, senza accorgersene, il ramo su cui sono seduti.

La rabbia che questi pensieri mi procurano svanisce nella luce di questa ancor timida primavera che cerca il suo legittimo spazio. E' il perpetuo gioco della natura. forte ed immutabile, come tutte le cose della natura. Troppo spesso dimentichiamo di farne parte, peccando di arroganza e di superbia. La vita, la nostra vita, è come un buon pranzo. Possiamo godere del vino e del cibo che ci vengono serviti, ma nella giusta misura. Se beviamo e mangiamo in eccesso trasformiamo il benessere in malessere.

Il progresso tecnologico ci consentirebbe di vivere bene, senza rinunce e senza affanni. Ma noi vogliamo strafare, eccedendo. Così siamo spinti a produrre sempre di più, sfruttando tutto il potenziale che la tecnologia ci mette a disposizione. E produciamo enormi quantità di merci inutili, eccedenti le nostre effettive necessità, consumando risorse naturali e tempo. Dimenticando che è proprio il tempo il bene più prezioso che abbiamo.
Il peccato della nostra società è proprio quello di non aver saputo godere dei vantaggi del progresso, creando dei mostri che ci stanno divorando: il debito, l'ansia, la solitudine, l'inquinamento, la disoccupazione.

La solitudine del fast-food ha sostituito il piacere del convivio, della condivisione lenta del cibo e delle idee. Lo squallore dei centri commerciali ha sostituito i colori, i profumi, i suoni e la preziosa anarchia dei mercati.
L'asettica ed ovattata velocità dei trasporti ha sostituito il gusto del viaggio e della scoperta.
La televisione ci ha imprigionati nelle nostre case e nei nostri egoismi, isolandoci dai vicini e dalla comunità.
Il successo a tutti i costi ha sfaldato le remore morali che costituivano il tessuto connettivo di una comunità.
L'edonismo ha distrutto la famiglia, vero, unico, inossidabile nucleo di ogni società armoniosa.

Abbiamo abbastanza di che vergognarci, se non fosse che anche il senso della vergogna appare sfumato.

Eppure continuano a martellarci di menzogne, che ripetute all'infinito diventano veri e propri dogmi. Occorre fermarsi un attimo e riflettere: ci accorgeremmo che tutto concorre allo sfaldamento della società, alla creazione di individui soli, senza legami familiari, territoriali, sociali e culturali. Degli automi privi di senso critico, di valori, disposti a lavorare e consumare nei modi e nei tempi stabiliti da altri. Tutto deve essere standardizzato: la lingua, la musica, la moda, le città, la moneta, le auto, le leggi, le tradizioni, il cibo. E quindi ogni sforzo appare giustificato per distruggere ogni diversità, prima fra tutte quella delle idee.

Si sta così creando il consumatore globale, dai gusti e dai desideri standard, al quale vendere i prodotti costruiti in miliardi di pezzi tutti uguali. Al quale far vedere lo stesso film in tutto il mondo. Al quale far consumare lo stesso cibo.

Sono stanco. Rivendico il mio diritto di essere diverso da ogni altro individuo, di essere, in sostanza, umano.
Voglio, pretendo, che mi si chieda il parere sulle scelte che riguardano la mia vita. Nessuno deve decidere per me, per il semplice fatto che io sono un uomo, ed in quanto tale al di sopra di ogni stato, di ogni organizzazione, di ogni ente. Possono esistere uomini senza stato, ma non può esistere stato senza uomini. Ne deriva che lo stato promana dagli uomini, e gli è sottoposto, ed ogni singolo uomo è portatore di diritti innati superiori a qualunque altro diritto creato dalla legge,

Troppo spesso il cosiddetto interesse generale usurpa i diritti naturali ed inviolabili degli uomini. Si tratta quasi sempre di una truffa: con il pretesto dell'interesse generale si legifera a favore della solita minoranza di parassiti che da sempre governano nell'ombra.

Ma io sono stanco, e voglio esercitare il mio diritto di essere padrone della mia vita. E colpirò il potere nell'unica forma efficace, quella che, esercitata da una moltitudine di uomini, è l'unica capace di recare danni irreparabili a queste oligarchie parassitarie.

Non la violenza, che mi vedrebbe sconfitto, ma lo stile di vita sarà l'arma con la quale colpirò il potere. Uno stile di vita che contempli il rifiuto di quelle azioni e di quelle scelte funzionali agli interessi dei miei nemici. Null'altro sarebbe per loro più deleterio, se questa guerra fosse condotta da milioni di persone consapevoli del grande inganno nel quale viviamo.

Intanto sono qui, in mezzo alla natura, nella quale mi sento avvolto e protetto come nel grembo di una madre. Sono qui e godo dell'aria, del silenzio, dei profumi che questa grande madre dispensa gratuitamente a tutti i suoi figli. E godo del mio ozio, consapevole che il grande parassita ne soffre.

LETTERA AD UN AMICO DEL NORD

.. Voglio parlarti, caro amico, della mia terra, ovvero della mia gente. Voglio farlo con un linguaggio chiaro, semplice, conciso, lungi dall'enfasi e dalla retorica idiota di tante puttane della politica e del giornalismo, di coloro che non hanno nulla da dire e vogliono farlo camuffando la vacuità di fondo e vestendola di abiti intellettualoidi.

Ognuno è artefice del proprio destino, come individuo e come popolo. Al di la dei rari eventi in cui la nostra volontà è impotente, sono le scelte che operiamo a tracciare il solco entro cui scorre la nostra esistenza. Questo, se è vero per i singoli, lo è ancor più per le nazioni. Scegliamo con la testa, in base alla nostra cultura, ai nostri valori, alla nostra educazione. Affermo, e ne sono fortemente convinto, che le condizioni economiche, sociali, politiche di un Paese dipendano dalla "cultura" di quel paese, e dalla cultura di ogni suo singolo componente. Quali che siano tali condizioni, benché non condivise, vanno comunque rispettate, giacché ogni popolo ha il diritto di autodeterminarsi.

Fin qui tutto quadra. Il problema nasce quando un popolo, vigliaccamente, non si ritiene responsabile della propria condizione, ma tende a scaricarne la responsabilità verso capri espiatori, i più fantasiosi. A questo proposito ho sentito l'intero pacchetto delle assurde menzogne con le quali noi meridionali tendiamo a mondare le nostre coscienze. La cosa che più mi rammarica è che tali menzogne siano propinate non solo dal netturbino semianalfabeta ma anche, forse sopratutto, da persone istruite allo quali lo studio della storia, se mai l'avessero studiata, avrebbe dovuto conferire una maggiore capacità di analisi. Probabilmente cinquant'anni di propaganda demagogica da parte dei nostri politici è servita a rimbecillire la coscienza di gran parte del popolo meridionale. Sta di fatto che pochi, davvero pochi, comprendono appieno le cause del nostro disastro. Questo ci impedisce di praticare la cura giusta, la sola che potrebbe portare alla guarigione. Curiamo i sintomi, ma non la malattia. Assumiamo farmaci palliativi, trasferimenti, sussistenze, finanziamenti, investimenti fasulli, che consentono esclusivamente il prolungamento di una lenta agonia.

Ti parlerò, caro amico del nord, della malattia che logora il nostro organismo, del perché ne siamo colpiti, di quali ne siano i sintomi e, soprattutto, delle possibili cure. Il nostro male si chiama controriforma. Alcuni usano nomi diversi come "sudditanza", feudalesimo, spirito levantino. Nomi diversi per uno stesso male: la mancata trasformazione dei sudditi in cittadini.

Non esiste democrazia compiuta senza cittadini. Laddove esistono cittadini la democrazia nasce e si sviluppa generando frutti sani e copiosi. Laddove il popolo è composto di sudditi la democrazia non può che essere imposta. Ma una democrazia imposta non attecchisce, anzi tende a degenerare in qualcosa che della democrazia ha solo il nome.


Solo gli stolti possono negare che fino alla metà dell'ottocento la struttura sociale meridionale fosse sostanzialmente di tipo feudale. La storia del meridione d'Italia è un susseguirsi di dominazioni: Bizantini, Arabi, Normanni, Svevi, Angioini, Aragonesi, Francesi, Spagnoli, Sabaudi. Nonostante questa varietà di case regnanti la condizione del popolo restava la stessa, quella dei sudditi sottomessi all'arbitrio del padrone di turno al quale pagare le tasse. Questa condizione, nel corso dei secoli, ha prodotto nella coscienza popolare la convinzione che, chiunque comandi, lo farà nel suo esclusivo interesse. In conseguenza di ciò il meridionale ha sviluppato alcune forme di autodifesa: lo scetticismo, il familismo, il fatalismo.

Caro amico, ho fatto questa premessa perché tu possa capire perché il meridionale sia rimasto, nel suo modo di pensare, un suddito. Ora voglio parlarti della sua natura, e di come differisca da quella del cittadino. Il suddito considera naturale il fatto che esista un padrone. Egli non dubita del fatto che colui che comanda lo faccia in virtù di una ineludibile volontà divina, lontana, astratta. Un padrone può essere sostituito da un altro padrone, perché ci sarà sempre e comunque qualcuno che comanda. Il suddito, che non ha diritti, vive beneficiando dei favori e delle concessioni che colui che comanda vorrà di volta in volta dispensargli, secondo il suo arbitrio. La vita stessa del suddito è nella piena disponibilità del padrone, che ne determina il destino. Non esistono, in questo contesto, i beni pubblici. Ciò che non appartiene al suddito appartiene al padrone che, da vero signore, aborrisce il lavoro. E' il lavoro che distingue il signore dal suddito. Il primo vive di privilegi, potere, rendite; il secondo deve guadagnarsi da vivere lavorando. Entrambi disprezzano coloro che lavorano, considerandoli mentecatti. La proprietà terriera, ed il latifondo in particolare, garantiscono al signore la rendita parassitaria necessaria ai suoi bisogni. Ogni altra iniziativa economica è considerata disdicevole, salvo quelle poche attività privilegiate, prive di concorrenza, avute in concessione dal Re, come la riscossione dei tributi, il monopolio del sale, l'attività notarile.

Date queste premesse possiamo riassumere ciò che caratterizza il suddito, la sua natura profonda, il suo modo di pensare, la sua cultura.
1) egli disprezza il lavoro ed ammira coloro che vivono di rendita, privilegi, sussidi, concessioni, piccole truffe, intrallazzi.
2) egli non ha cura di ciò che non gli appartiene, e considera i beni pubblici qualcosa su cui non ha né diritti né doveri. Spesso partecipa al loro scempio con sottile compiacimento, quasi una rivalsa nei confronti del potere.
3) egli considera lo stato come un padrone al quale dare il meno possibile a dal quale prendere il più possibile. Il bilancio pubblico è una faccenda che non lo riguarda, ciò che conta è esclusivamente il proprio "particulare".
4) la sua massima ambizione è quella di divenire un signore. Ciò può avvenire esclusivamente avvicinandosi il più possibile al potere, godendo della sua miserabile fetta di privilegi.
5) non avendo alcuna fiducia nelle istituzioni egli confida esclusivamente sulla famiglia.
6) egli è eternamente in lotta con lo stato, dal quali si sente vessato, e si vendica cercando di eluderne le leggi.
7) ritenendo inutile il voto, "tanto comandano sempre gli stessi", venderà il suo suffragio a colui che gli garantirà protezione nei confronti della pubblica amministrazione. Tale aiuto consisterà nell'elusione delle regole e delle leggi.

E' vero che non tutti i meridionali sono uguali, ed esiste una certa percentuale di miei conterranei che ha oramai acquisito appieno lo status di cittadino, ma la gran parte della popolazione è, in maggiore o minore misura, portatrice di queste convinzioni. Non ti fidare, caro amico del nord, delle chiacchiere. Troppi predicano bene e razzolano male. Bisogna giudicare da ciò che fanno, e non da ciò che dicono. A suffragio di quanto affermo ti rivelo i risultato di un sondaggio che ho effettuato tra una trentina di miei conoscenti. Un sondaggio che ha poco di scientifico ma i cui risultati sono realistici.

La domanda era: siete disposti a rinunciare per sempre al diritto di voto in cambio di un impiego pubblico, una casa garantita e all'eliminazione della criminalità? Credimi, il 100% ha risposto si. Coloro che avevano già un impiego pubblico hanno richiesto un impiego pubblico per i figli. ( sic!) Sembrerebbe impossibile che si possa rinunciare così facilmente alla prerogativa fondamentale di ogni democrazia: la sovranità popolare. Il fatto è che il suddito ritiene che il voto sia solo una presa per i fondelli, inutile e dispendiosa. che in ogni caso non determina l'indirizzo politico di chi governerà. Egli ritiene che il diritto di voto sia una concessione che il potere, chissà perché, ha elargito al popolo. Bada bene: non un diritto, ma una concessione. Al di fuori di sparute minoranze il popolo meridionale, sempre passivamente servo di qualcuno, non ha mai lottato per la sua autonomia, per i suoi diritti, per la democrazia. Essa le è piovuta addosso, senza che ne comprendesse i meccanismi e senza che ne sentisse il bisogno.

E' in questo contesto, caro amico del Nord, che il meridionale esercita i suoi diritti politici. Il voto non viene utilizzato per dare un determinato indirizzo alla gestione della cosa pubblica, alla migliore tutela dell'interesse collettivo, all'affermazione di un certo ideale. Esso è considerato semplicemente merce di scambio. Il meridionale, in grandissima maggioranza, vende il proprio voto a colui che meglio potrà tutelare il suo "particulare". E tanto più il candidato è un mariuolo, un disonesto, un faccendiere voltagabbana, tanto più godrà del favore popolare in quanto maggiormente propenso all'intrigo, all'elusione delle leggi, alla corruttibilità. Che poi questo candidato, una volta eletto, concorra insieme agli altri al depauperamento della cosa pubblica, allo sfascio della pubblica amministrazione, alla sclerosi economica del paese, gli è del tutto indifferente. Sebbene cosciente di pagare in qualche modo le conseguenze di un siffatto sistema, egli lo accetta, nella convinzione che, chiunque governerà, agirà nello stesso identico modo. Caro amico del Nord, è questo fatalismo tipico dell'epoca pre moderna e del mondo rurale in generale uno degli aspetti del male che ci logora.


Il meridionale è cosciente del fatto che questo meccanismo sia perverso e sia la causa primaria del degrado sociale, intellettuale ed economico del nostro paese. Ritiene, però, che non possa essere modificato, e che comunque il proprio voto non possa cambiare le cose. In virtù di tale convinzione tende a salvaguardare gli interessi propri e della propria famiglia. Lo fa cercando l'unica strada che possa garantirgli reddito, sicurezza, prestigio sociale: il pubblico impiego. La mancanza di lavoro al sud non è la causa della brama con la quale il meridionale cerca il "posto", ma ne è la conseguenza. Relativamente alla natura del reddito necessario alla sopravvivenza il suddito dicotomizza la società tra coloro che lavorano e coloro che hanno un impiego pubblico. Questi ultimi sono considerati, in varia misura, dei "signori". Tale considerazione deriva dal fatto che, pur godendo di un reddito garantito, non hanno l'obbligo di lavorare.

Caro amico del Nord, traccerò ora il ritratto caratteriale del pubblico dipendente meridionale. Ti prego di considerare che tendo ad estremizzare certe caratteristiche che non appartengono a tutti ma ad una percentuale che, nel corso degli anni, tende fortunatamente a diminuire. In genere nella pubblica amministrazione si accede per concorso. Non posso affermare che in Italia i concorsi siano tutti fasulli. Ciò che posso dirti è che relativamente alla zona nella quale vivo conosco le graduatorie dei concorsi prima ancora che essi si svolgano; e non sono un chiaroveggente. Queste "stranezze" si verificano sia per l'assunzione di un autista che per quella di un primario. Non è difficile comprendere come i concorsi siano un grande bluff, inutili e costosi. Servono, al massimo, a salvare la forma, l'apparenza, cose che il meridionale, controriformista e quindi barocco, ama. Le assunzioni, in verità, si decidono nelle stanze del potere.

Ogni politico eletto tende a riscuotere la propria "parcella elettorale" che girerà, poi, ai propri gregari. Questi, a loro volta, cercheranno di accontentare le famiglie che maggiormente avranno contribuito all'elezione del proprio padrino. Il numero dei "posti" disponibili è sempre inferiore a quello degli aspiranti fannulloni, per cui ad ogni concorso si cercherà di sistemare ora il membro di una famiglia, ora quello di un'altra famiglia. Avere un ministro delle poste o dei trasporti o delle foreste proveniente dalla propria circoscrizione diventa una vera manna. In questi casi si inventeranno i più assurdi pretesti pur di assumere senza concorso schiere di conpaesani. Alla fine paga pantalone.

Il meridionale che viene assunto sente, da quel momento, di appartenere ad una casta privilegiata. Attraversato il Rubicone che divide i sudditi dai signori egli acquisirà d'improvviso la spocchia, la presunzione, l'arroganza tipiche del signore feudale. Ed in realtà si sentirà tale in virtù del fatto che non sarà più obbligato a lavorare per vivere. Egli godrà di ampi diritti, dei quali tenderà naturalmente ad abusare, e di pochi doveri. Cosciente che la sua nuova condizione sia irreversibile, imperitura, garantita al di la della qualità delle sue prestazioni, userà la propria intelligenza al solo scopo di lavorare il meno possibile e rendersi edotto di tutti i meccanismi utili per partecipare con efficienza ed entusiasmo al saccheggio delle casse pubbliche. Nei rapporti con il pubblico, in modo più o meno evidente, tenderà a sottolineare il fatto che sostanzialmente siete alla sua mercé, e se proprio soddisferà le vostre istanza lo farà a mero titolo di favore personale. Totalmente incurante delle vostre esigenze e privo di rispetto per il vostro tempo e la vostra dignità, cercherà di farvi sentire in debito nei suoi confronti, avendo egli interrotto il suo ozio, cosa quanto mai disdicevole, essendo quello dell'ozio uno dei diritti fondamentali dei veri signori.


Il più delle volte il suddito meridionale tende ad evitare i rapporti diretti con la pubblica amministrazione, salvo il caso in cui ha delle conoscenze all'interno dell'ente o dell'ufficio al quale deve rivolgersi. Più spesso egli si rivolgerà al proprio referente politico, il quale, avendo ricevuto il suo voto, si sentirà obbligato al disbrigo delle incombenze dei propri clienti. Può apparire strano, ad un non meridionale, che la gente chieda queste intercessioni anche per quelle prestazioni che sarebbero comunque fornite gratuitamente e velocemente semplicemente rivolgendosi al relativo ufficio. Tutto questo è invece normale se si conosce la mentalità che sottintende a questa prassi. Per il meridionale lo stato non rappresenta il popolo, ma un potere estraneo, lontano, astratto. Lo stato è composto da una minoranza di privilegiati che ha il diritto di vivere a spese di chi produce ricchezza e che di queste spese non deve mettere conto a nessuno. Nel momento in cui un suddito riesce ad entrare nell'olimpo della pubblica amministrazione viene considerato, dai più, un privilegiato, uno che ha pochi doveri e molti diritti, uno che ha facoltà di dispensare favori, uno che, addentro alle cose pubbliche, avrà maggiori possibilità di mungere la vacca della spesa pubblica. La grandissima parte dei dirigenti della pubblica amministrazione dispone di patrimoni e redditi non giustificabili dell'entità degli stipendi percepiti, i quali, comunque, sono molto sovradimensionati rispetto alla qualità del lavoro svolto.

E non credere caro amico del Nord che la gente consideri questi signori dei ladri. Il popolo meridionale ossequia, ammira, riverisce questi parassiti, considerandoli dei furbacchioni che ci hanno saputo fare. Dei veri e propri modelli da imitare. Lo dimostra il fatto che la quasi totalità degli eletti alle varie votazioni, è composta da dirigenti pubblici. Tutta gente palesemente ladra ed inetta, ma che in virtù dei ruoli occupati sarà in grado di dispensare favori in gran quantità. Nessuno voterebbe una persona capace, onesta, corretta, per il semplice fatto che quasi certamente non dispenserà favori, agirà nel rispetto della legalità, e, soprattutto, farebbe vacillare quel consolidato sistema di relazioni tra sudditi e potere sul quale si basa la società meridionale. Che tale sistema sia marcio ne sono tutti consapevoli, ed in cuor proprio ognuno vorrebbe che avesse fine. Ma ognuno è anche cosciente che da solo non potrà cambiare le cose, e mentre cercherà di lottare per abbattere questo sistema marcio, resterebbe fuori dal gioco, provocando gravi danni ai propri familiari, di cui si sente responsabile.

Laddove un bidello o un postino godono di un riconoscimento sociale superiore a quello di un piccolo imprenditore è evidente che lo sviluppo di una sana imprenditoria sia soffocato. E' il contesto sociale, e non la mancanza di capacità individuali, che inibisce la creazione di un tessuto industriale diffuso. E per quanti finanziamenti possono essere erogati, nulla cambierà se non cambierà la cultura alla base di questo sfacelo.

Nel dopoguerra, e fino agli anni settanta, vi è stato un grande fermento economico nella zona in cui vivo. Cavalcando l'onda del boom economico molti artigiani si sono trasformati in imprenditori, ottenendo sorprendenti risultati. Molte micro aziende si sono trasformate in piccole e medie industrie, producendo utili e creando occupazione. Di tutte queste aziende oggi non rimane nulla. Come mai? In verità tutti questi imprenditori, sebbene ottenessero buoni risultati economici, continuavano a convivere con un profondo complesso di inferiorità nei confronti dei "signori". Si premurarono, quindi, di preparare i figli a quel salto di classe al quale ambivano. Li fecero laureare ed usarono la loro forza economica per inserirli nella pubblica amministrazione e nelle libere professioni. Sistemati i figli, complice un mercato sempre più difficile, cessarono le attività ed affittarono i capannoni.

A quel punto la famiglia si poteva finalmente considerare appartenente al mondo dei signori, disponendo della cosa indispensabile alla bisogna: la rendita. Una doppia rendita derivante dai canoni di locazione degli immobili e dal sicuro ed intoccabile stipendio pubblico.

L'attaccamento alla sicurezza ed al privilegio è così forte che una grandissima quantità di avvocati, ingegneri, biologi, nutre la folta schiera degli insegnanti. Può sembrare strano che un ingegnere trascuri la libera professione per dedicarsi all'insegnamento dal quale trarrà un reddito tutto sommato miserabile. Devi capire, caro amico del Nord, che la parola "pubblico impiego" genera nei meridionali un vero e proprio stato di estasi. L'appartenenza ad una certa casta ha un valore sociale che supera il puro aspetto economico. Il meridionale, figlio della controriforma, vede nel rango sociale il metro di ogni valore. La capacità, l'impegno ed il talento valgono nulla rispetto ad un titolo, anche se il più delle volte dietro quel titolo vi è il nulla. Anche questo è uno dei motivi per il quale tantissimi meridionali impiegati nella pubblica amministrazione che risiedono al nord fanno carte false pur di essere trasferiti nel loro paese d'origine. Oltre l'attaccamento alla loro terra, legittimo, essi desiderano tornare laddove godrebbero di quel prestigio sociale che in una cultura europea non è loro riconosciuto.


Voglio nuovamente precisare che le cose, fortunatamente, stanno cambiando. Una percentuale sempre più grande di meridionali ha oramai perso del tutto le caratteristiche del suddito. Così come è vero che  in molte zone del Nord il quadro sociale non è molto dissimile da quello del Sud. Rimane comunque il fatto che nessuna delle aziende delle quali ti ho appena parlato ha compiuto il salto di qualità che le avrebbe consentito di crescere e consolidarsi. Non è rimasto che il vuoto totale. Ed è difficile che oggi possano nascere aziende competitive dall'iniziativa di un piccolo artigiano privo di capitali. Coloro che dispongono di cospicui capitali, e ve ne sono tanti, si astengono da qualsiasi iniziativa imprenditoriale, e questo per i motivi di cui ti ho parlato. Poichè il nulla genera il nulla, è facile prevedere il futuro industriale del meridione.

Ma il dramma più grande, e forse il più sottovalutato, consiste nella fuga delle intelligenze. I meridionali più intelligenti, più aperti, più qualificati, soffrono più di altri questo clima di sfascio generale, di immobilismo funereo, di rassegnazione. Queste persone hanno capito che nulla cambierà se non cambierà il modo di pensare, e quindi di agire, degli individui. Queste persone sono coscienti del fatto che gli aiuti indiscriminati, le sussistenze, i finanziamenti, le leggi speciali, hanno concorso a drogare l'economia meridionale, ed a consolidare una cultura anacronistica. Sentendosi impotenti e soli fuggono laddove trovano le condizioni economiche e sociali tali da consentirgli una vita più consona alle proprie aspettative. Amano, dei luoghi in cui vanno a vivere, quel senso generale di ordine e di rispetto delle regole, il buon funzionamento della pubblica amministrazione, il riconoscimento sociale dell'impegno, della capacità e del talento, la cura del bene pubblico e, soprattutto, l'apprezzamento per il lavoro.


Esiste una via d'uscita da questa situazione? Certamente si. Abbiamo visto come il problema meridionale sia essenzialmente un fatto culturale. E fin quando non si cambierà il modo di pensare, ovvero non si trasformeranno i sudditi in cittadini, le cose non cambieranno, per quanti soldi possano essere spesi. Quando sentite dire che occorre investire al sud, che bisogna realizzare infrastrutture, che occorre creare lavoro pubblico, sappiate che ci stanno prendendo per il culo. Anzi, queste cose procurano danni al meridione, a fronte dei grandi vantaggi riservati ai soliti parassiti.


Non di denaro ha bisogno il sud, ma di nuove regole. Innanzi tutto occorre accorciare la distanza tra il flusso fiscale ed i centri di spesa, affinché ogni persona abbia in qualche modo il controllo sul denaro delle tasse. Lo stato centralizzato è un gran calderone dove transita denaro di cui non si percepiscono l'origine e la destinazione. Immaginiamo che le tasse debbano essere pagate al comune di residenza, e che successivamente lo stesso comune ne trasferisce una certa percentuale allo stato. Il denaro che resta nelle casse comunali è quello a disposizione per sostenere una serie di servizi. Se le entrate fiscali sono alte il comune può offrire molto, se sono basse sarà costretto a tagliare molti servizi ed a rendere più efficiente la spesa.


In tal modo si crea una relazione diretta e percepibile tra quanto si paga e quanto si riceve. Il contribuente pretenderà giustamente di conoscere le voci di spesa, e sarà costretto, che lo voglia o meno, a scegliere degli amministratori capaci. E' un po' ciò che avviene nei condomini. Innanzitutto ognuno deve pagare le sue quote, e se qualcuno non paga si protesta. Inoltre se l'amministratore gestisce male le risorse viene mandato via, perché il condomino si sente colpito nelle proprie tasche. L'amministratore, nel caso volesse deliberare spese straordinarie, ad esempio costruire una piscina, sarà costretto a chiedere il parere dei condomini, i quali potranno decidere se sostenere o meno quella spesa per avere quel servizio. In un condominio ognuno si sente padrone dei beni comuni, e pretende di controllarne la gestione.


Se vogliamo che il meridionale diventi un cittadino occorre che si senta responsabile dell'amministrazione della cosa e dei servizi pubblici. E lo può fare nel momento in cui ha la percezione che ciò che sarà amministrato sarà il suo denaro, e non quello proveniente da un lontano e astratto stato. Si renderà anche conto che non esistono pasti gratis, e che tutto ha un coste che egli stesso dovrà sostenere. Sarà quindi obbligato a scegliere gli amministratori più capaci che, tra le altre cose, si adopereranno per stimolare la libera iniziativa, unica fonte di vera ricchezza e quindi di maggiori risorse da destinare ai servizi pubblici. Il comune renderà pubblica la lista di chi e quanto paga, e di chi e quanto percepisce. Diventerà difficile per un finto invalido percepire una pensione, perché  state pur certi che i concittadini non resterebbero indifferenti, come ora succede, ma protesterebbero fermamente, trattandosi dei loro soldi.


Occorre, in parole povere, un vero e stretto federalismo. Tutte le altre chiacchiere vanno lasciate alla demagogia dei politici. Ogni comunità deve essere l'artefice del proprio destino, averne in mano le redini e la possibilità di adeguare una certa quantità di regole al proprio progetto sociale.

PESCARA

Sebbene la città di Pescara conti una popolazione di soli 130 mila abitanti, essa rappresenta il fulcro di una conurbazione di circa 350 mila abitanti, comprendente le città di Chieti, Francavilla, Montesilvano ed altre decine di piccoli comuni.

Si tratta di un'area molto vasta, completamente urbanizzata, senza soluzione di continuità tra un comune e l'altro. Aree industriali si alternano ad aree residenziali, centri commerciali a svincoli e raccordi stradali. Praticamente, come accaduto in molte zone d'Italia, la campagna è stata pian piano fagocitata da una cementificazione prepotente ed invadente, spesso disordinata, sempre devastante.

Una delle cose che balza subito all'occhio di qualunque osservatore è l'enorme numero di locali e strutture commerciali in locazione o in vendita. Palazzi finiti alcuni anni fa hanno l'intero piano terreno sfitto. Stessa sorte a strutture commerciali di grandi dimensioni, spesso dall'architettura sofisticata o comunque ricercata; desolatamente vuote. Viene da chiedersi se non si siano fatte delle valutazioni sbagliate sulla consistenza di una domanda che, probabilmente, si riteneva dover crescere all'infinito.

Dubito che la scarsità di domanda di locali commerciali sia da imputare esclusivamente all'attuale momento recessivo. Questo forse può valere per le zone centrali particolarmente votate al commercio, laddove fino ad un paio di anni fa era praticamente impossibile trovare un locale libero, mentre oggi abbonda l'offerta di locazioni commerciali.

Credo, piuttosto, che il destino di questi immobili non avrà miglior sorte allorquando questa crisi dovesse avere termine. E questo per una serie di ragioni che si possono riassumere con il fatto che l'economia del prossimo futuro avrà una struttura diversa da quella attuale. Nel caso specifico del commercio credo che il futuro vedrà un consolidamento delle grandi strutture di vendita specializzate appartenenti a catene più o meno diffuse, all'incremento del commercio elettronico, alla sopravvivenza dei piccoli negozi del lusso o comunque di alto livello, alla lenta agonia e scomparsa del piccolo commercio.

Comunque vada, è chiaro che la superficie complessiva destinata al commercio subirà un grande ridimensionamento, e molti che hanno acquistato locali commerciali nella speranza di garantirsi una piccola rendita, avranno fatto un pessimo investimento.

A fine Agosto apre la nuova struttura dell'IKEA. Posizionata strategicamente all'uscita dell'autostrada Pescara-Ovest, domina, con il suo inconfondibile blu, l'intera zona, essendo posizionata su una leggera altura. Il suo insediamento ha comportato ulteriori lavori, con la costruzione di rotatorie, svincoli, raccordi, incrementando la già enorme superficie di territorio destinata alla circolazione dei veicoli. Naturalmente questo ulteriore scempio è giustificato dal fatto che deve essere fatto tutto il possibile per agevolare l'arrivo dei clienti e garantire incassi stimati in decine di milioni di euro l'anno.

I più ingenui plaudono a questa iniziativa, sostenendo che garantirà un certo numero di posti di lavoro. La verità è piuttosto diversa, ed in fondo più amara.

Innanzitutto ciò che l'IKEA incasserà sarà fatturato sottratto a decine di negozi tradizionali. Si può ragionevolmente stimare che ogni punto vendita IKEA porti alla chiusura di almeno 50 rivenditori di livello medio e basso. Altri 50 locali commerciali resteranno inutilizzati, incrementando la già inflazionata offerta di immobili in locazione. Ma la cosa socialmente di maggior rilievo è che non saranno creati nuovi posti di lavoro, ma si trasformeranno 100 lavoratori liberi e padroni delle loro vite in 100 schiavi. 100 giovani verranno assunti e 100 cinquantenni si ritroveranno senza lavoro e senza speranza di poterne trovare uno nuovo regolare e dignitoso.

Questo crimine viene chiamato libero mercato, ed il suo scopo finale è quello di garantire tanto ai pochi e poco ai tanti.

Comunque non ho intenzione di fare, in questo momento, considerazioni di ordine morale. Io osservo, descrivo ciò che vedo, e lascio che ognuno faccia le proprie considerazioni.


I centri commerciali, tanti, onnipresenti, istruttivi.
Se qualcosa può essere preso a simbolo della nostra epoca, nulla è più didascalico del centro commerciale. Sebbene ognuno di essi abbia un aspetto architettonico diverso, nella sostanza sono tutti uguali. Il livello medio dei prodotti in vendita è decisamente basso, così come il livello sociale dei suoi frequentatori. Essi, a mio parere, sono le nuove piazze in cui una umanità moralmente vuota ed economicamente depauperata consuma l'illusione di essere ancora nella condizione di poter acquistare il superfluo. L'angosciante atmosfera di finta allegria, la scenografica e falsa opulenza dal sapore decisamente kitch, la totale incompetenza delle commesse dal sorriso a gettone, accolgono i nuovi poveri già preventivamente rimbambiti dalla televisione, dal presente incerto e dal futuro drammatico.

Qualcuno potrebbe sostenere che, se tanta gente frequenta i centri commerciali, vuol dire che essi sono la risposta ad esigenze reali delle persone, ed è giusto che ve ne siano in abbondanza. In fondo sono le persone che scelgono, e nessuno deve sindacare queste scelte. Forse è vero.

Ma è anche vero che tantissimi fanno uso di sostanze, bevono troppo, fumano, si giocano gli stipendi alle slot o ai grattini. Il fatto che queste persone facciano queste cose liberamente, senza alcuna costrizione, non vuol dire che queste cose siano buone. Vuol dire, forse, che una grossa fetta della popolazione ha gravi problemi esistenziali, smarrita in un mondo dai valori incerti e dalla morale degradata. Si tratta, in fondo, della stessa umanità dallo sguardo vuoto che vaga incerta nei centri commerciali. Spera di appagare in tal modo la sua estrema solitudine.

In ogni caso anche i centri commerciali non sfuggono all'inflazione immobiliare ed alla crisi economica. E' grandissima la quantità di locali sfitti. In alcuni centri commerciali meno frequentati la metà degli spazi è desolatamente inutilizzata. E sospetto che lo sarà a lungo. Eppure le richieste di autorizzazioni per l'apertura di nuove strutture sono numerose.

In particolare gli appetiti degli speculatori si stanno concentrando sulle numerose aree industriali dismesse. Sperano in un cambio di destinazione d'uso, bazzicano con generosità i territori della politica, propagandando l'idea che il lavoro perso nell'industria sarà compensato da quello necessario al funzionamento dell'ennesimo centro commerciale. Sembra che il futuro del nostro paese si baserà sul commercio di merci importate dai più convenienti paesi in via di sviluppo.

Si tratta di follia, di pura e criminale follia. Ma pochi, purtroppo, hanno il coraggio di mettere in guardia dalle nefaste conseguenze di questa scelta. Coloro che dovrebbero guidare il paese vivono alla giornata, aggrappati ai loro scranni e, forse, incapaci di una visione chiara di quanto sta avvenendo in questi tempi difficili.

L'area industriale di Chieti Scalo, come un po' tutte le aree industriali d'Italia, è una sterminata distesa di rugginose strutture industriali dismesse. Laddove lavoravano migliaia di operai non resta che un paesaggio metafisico dove le sterpaglie sembrano voler fagocitare ciò che resta di gloriose officine. Un po' grazie alle nuove tecnologie, un po' grazie alle delocalizzazioni, gli addetti all'industria scemano di anno in anno.

All'inizio gli esuberi del settore industriale furono assorbiti dal cosiddetto terziario, ma sembra che anche il terziario sia ormai saturo e che, anzi, tenda a ridurre il personale, avvalendosi sopratutto delle nuove tecnologie. D'altronde non esiste partita nei confronti di paesi con costi di produzione che sono frazioni di quelli italiani.

I sostenitori della competizione globale deregolamentata suffragano le loro idee sostenendo che paesi come l'Italia debbano puntare sul "terziario avanzato". Si tratta, chiaramente, di balle colossali. Questi sapientoni partono dal presupposto che i paesi in via di sviluppo non saranno capaci di avere produzioni ad alto valore aggiunto, tecnicamente all'avanguardia. Come se i cinesi fossero dei fessacchiotti un po' dementi.

Intanto un anno fa la P&G ha chiuso il centro ricerche di Pescara, lasciando senza lavoro un centinaio di ingegneri. Al loro posto lavorano, in India, altri ingegneri, non meno bravi e preparati di quelli italiani, ma dagli stipendi decisamente inferiori. Ca va sans dire.

In questo afoso agosto 500 dipendenti della Sixtin di Pescara hanno trascorso le loro ferie occupando gli stabilimenti dove si produceva abbigliamento. La proprietà è passata di mano ad un gruppo cinese che sta trasferendo la produzione l'amministrazione e la logistica in Croazia.
Questi disgraziati stanno tentando una lotta tanto rumorosa quanto inutile. Non servirà a fermare gli interessi di un capitalismo apolide votato esclusivamente al massimo profitto ed agevolato dalla dottrina globalista.

Comunque, percorrendo in lungo ed in largo questo esteso territorio urbanizzato, mi sembra di scorgere ovunque i segni di un collasso prossimo venturo.
All'apparenza Pescara sembra una città opulenta, dalla ricchezza diffusa e troppo spesso ostentata. Negozi lussuosi e locali di ogni genere, ville con piscina e palazzi eleganti, auto di grossa cilindrata ed un grande porto turistico strapieno di bellissimi natanti, nascondono in realtà i segni di un mondo inaspettato. Pescara è tra le città italiane con il maggior numero di fallimenti, protesti, pignoramenti, sfratti per morosità, denunce per truffa.

I ricchi di Pescara appartengono quasi tutti a famiglie ricche da più generazioni. Parlo, naturalmente, dei ricchi veri. Ci sono naturalmente i nuovi ricchi, tantissimi, la cui ricchezza è più ostentata che concreta, e poggia su basi tanto fragili da poter crollare ai primi scossoni. La sua esistenza poggia su uno schema ponzi nel quale tutto funziona fin quando la giostra continua a girare. Se la giostra dovesse fermarsi lo tsunami del debito abbatterebbe in brevissimo tempo questa classe sociale, trascinandola nel territorio dell'indigenza.

Questa giostra si chiama "crescita". Si pensava che ogni nuovo appartamento costruito trovasse un compratore, che ogni nuovo negozio trovasse nuovi clienti, che ogni nuovo ristorante servisse un certo numero di coperti. Si è perso di vista il fatto che la coperta non può essere tirata da una parte senza scoprirne un'altra. E così ogni appartamento nuovo lascia libero e vuoto un vecchio appartamento, ogni euro incassato da un esercente è un euro in meno incassato da un altro esercente, ogni pasto servito in un ristorante è un pasto in meno servito in un altro ristorante.

I redditi vengono diluiti tra un numero maggiore di attori, al punto che molti non riescono a coprire le spese. E' una guerra all'ultimo sangue, combattuta a colpi di sconti, deflazione, sconfinamento di fidi, morosità negli affitti, insolvenza verso i fornitori. Si tratta di una guerra inevitabile, necessaria a riportare il numero di attività del terziario alla giusta misura. Il fatturato complessivo del settore non è in grado di sostenere l'enorme numero di attività, il più delle volte nate come soluzione alla mancanza di lavoro. E poiché allo stato attuale non è pensabile un aumento del fatturato, ci sarà una ecatombe di attività nei prossimi mesi.

Ho avuto occasione di parlare qualche giorno fa con un direttore di banca, il quale si sta letteralmente cagando sotto. Mi raccontava delle sue paure, suffragate dalla convinzione che l'intero sistema bancario dovesse espellere dai suoi ranghi decine di migliaia di dipendenti. Tutto questo nell'ambito di una ristrutturazione che vede l'informatica e l'automazione come i pilastri sui quali i servizi bancari reggeranno.
Meno impiegati, meno sedi fisiche, più internet. In fondo quel che fa un impiegato allo sportello lo fa benissimo un terminale elettronico.


Sono frastornato, confuso ed impaurito.
La città, con la sua frenesia, con le sue distanze, i suoi rumori ed i suoi subdoli richiami consumistici, mi opprime. Il respiro diventa pian piano affannoso, quasi che l'ossigeno mancasse.
Con l'auto imbocco una direzione che mi conduca fuori da questa bolgia, una direzione qualsiasi. Dopo qualche minuto gli edifici diventano man mano più radi, lasciando il posto alla campagna.
Non so di preciso dove sto andando. Mi dirigo verso il massiccio del Gran Sasso, salendo senza fretta le tortuose strade che si inoltrano sulle colline.

Finalmente, con la città abbastanza lontana, mi ritrovo su un poggio dal quale posso rimirare il magnifico e rasserenante paesaggio delle colline teramane. Entro in un piccolo negozio di alimentari ed ordino un panino con la mortadella. Poi mi siedo al fresco, godendo della brezza che viene dal mare e del silenzio che viene dal monte.

Mangio il mio panino, felice, e penso che non saprò mai se sono io ad essere strano o sono gli altri a non aver capito un Kazzo.

L'UOMO CATTIVO

C'era un signore cattivo, tanto ben organizzato, tanto furbo e tanto forte, da essere riuscito a ridurre in schiavitù buona parte dei suoi concittadini.

Il signore cattivo aveva l'abitudine di sodomizzare i suoi sudditi. A parte alcuni che provavano piacere nel prenderlo in culo, la maggior parte accettava questa umiliazione come qualcosa di inevitabile e, forse, giusta.

Solo una sparuta minoranza, la più orgogliosa, era scappata e si era data alla macchia pur di non rinunciare alla propria dignità.

Gli appetiti del signore cattivo, ahimè, aumentavano di anno in anni, fin quando la sua attività di sodomizzatore non provocò tali danni allo sfintere dei suoi sudditi da provocarne il malcontento e le proteste.

La colpa, disse l'uomo cattivo alla folla, è di coloro che sono scappati sui monti. Se anche loro si lasciassero sodomizzare la mia brama nei vostri confronti si attenuerebbe.

Ad un popolo che, perdendo ogni dignità, si lasciava sodomizzare da anni, era facile darla a bere. E così tutti si convinsero che la colpa del fatto che lo prendessero continuamente in culo non era dell'uomo cattivo, ma di coloro che si rifiutavano di farsi sodomizzare.

Fu così che l'uomo cattivo, guardando la folla inveire contro coloro che si rifiutavano di prenderlo in culo, salutò i suoi schiavi, accennando un sorriso beffardo.

LA SAGGEZZA DI UN VECCHIO IMPRENDITORE

Voglio riportare il discorso di un anziano compaesano, analfabeta e partito completamente squattrinato, che ha creato un'azienda con 80 operai ed ha esportato per 20 anni la quasi totalità della sua produzione:

" vedi Giorgio, tu sei giovane (sic!), e non sai come funzionavano le cose ai miei tempi. Se io, con la mia piccola bottega, avessi pagato sempre tutto quanto lo stato pretendeva, sarei andato in pensione miserabile così come sono partito. E' solo grazie all'evasione fiscale che io, come tutti gli altri imprenditori di allora, abbiamo potuto mettere da parte quelle somme necessarie ad acquistare un nuovo macchinario, o ad affittare un locale più grande. Man mano che ci ingrandivamo aumentava il nostro reddito sul quale poi pagavamo le tasse, ma sempre molto meno di quanto sarebbe stato corretto.
Mentre io ed altri imprenditori ci ingrandivamo, evadendo il fisco, assumevamo sempre più persone. Si dice che i dipendenti pagano le tasse. In realtà le tasse dei dipendenti eravamo noi a pagarle. Ai miei operai interessava solo sapere quanti soldi prendevano al netto.
Quando assumevamo una persona ci mettevamo d'accordo sulla paga. Se si stabiliva che l'operaio avrebbe preso 120 mila lire al mese, si intendeva che quella somma fosse netta.
Poi l'onere dei contributi e delle tasse erano, nella sostanza, a carico del datore di lavoro.
Io ho fatto lavorare circa 80 persone. Ho pagato tasse e contributi enormemente superiori a quanto avrei pagato se fossi stato "onesto" per la semplice ragione che sarei rimasto un piccolo e miserabile artigiano.
Ti ricordi che al nostro paese c'erano decine di fabbriche con migliaia di dipendenti? A quei tempi i soldi giravano per tutti. Tutti quelli che avevano uno stipendio acquistavano la casa, si vestivano, andavano in vacanza. In pratica c'era trippa per tutti.

Ad un certo punto le cose sono cambiate. Tutto è diventato più difficile. Oggi sarebbe impossibile per un piccolo artigiano diventare un industriale. Tra tasse, regolamenti e burocrazia, a malapena si riesce a stare a galla. Oggi per fare l'industriale, e quindi dare lavoro, devi partire già con un capitale di milioni di euro.

Ma chi oggi ha quel capitale si guarda bene dall'investire in una attività manifatturiera. E se proprio volesse farlo, andrebbe a farlo in quei paesi che funzionano come funzionava l'Italia dei miei tempi.

Nel nostro paese ci sono tante persone che si sono fatte una posizione in quegli anni. Abbiamo evaso le tasse, è vero, ma abbiamo fatto lavorare per trenta anni migliaia di persone, che hanno consumato, hanno fatto studiare i figli, hanno dato lavoro ai costruttori.

Credi che sia meglio oggi, con il peso delle tasse attuale ed i controlli asfissianti? Oggi è difficile fare l'imprenditore, con margini sempre più ridotti sui quali il fisco banchetta con inusitata ingordigia?

Chi si mette a fare l'imprenditore, investendo soldi e rischiando tutto per portarsi a casa lo stipendio che guadagna un dipendente? Sempre che ci si riesca.

E così abbiamo schiere di giovani disoccupati e senza futuro, che naturalmente non si sposano e non si tolgono dai coglioni. Ma che colpa hanno? Tutto è complicato, tutto è difficile.

Io non ho studiato, e sono ignorante. Ma stai attento a quelli che hanno la laurea, perché credono di sapere cose che in realtà non sanno.
Immagina che al nostro paese aprisse una fabbrica che desse lavoro a 5000 persone, e che il proprietario di questa fabbrica non pagasse una lira di tasse; sarebbe un male?

Se qualcuno ti dice di si vuol dire che non ha capito un cazzo. Cinquemila persone stipendiate fanno entrare nelle casse dello stato qualcosa come 70 milioni di euro l'anno, oltre a far girare tutta l'economia del paese. Alla fine chi se ne frega se il proprietario della fabbrica evade un milione di euro di tasse.

Invece quelli che hanno studiato dicono che è meglio avere 5000 disoccupati, far morire tutta l'economia del paese, piuttosto che accettare l'evasione fiscale.

Dimmi un po'  tu se non è un ragionamento da coglioni?

Ecco, Giorgio, il nostro dramma, anzi il vostro, perché io ormai sono vecchio, è che siete governati da un branco di coglioni."

MIO FIGLIO E' UN CAPRONE

Mio figlio è un caprone.

Fin dall'infanzia ha sempre aborrito lo studio. E' stata una vera impresa riuscire a fargli prendere un diploma, cosa che comunque non gli ha impedito di restare analfabeta, come buona parte dei diplomati. Ho temuto, spesso, di essere il responsabile della sua crisi di rigetto nei confronti dei libri, avendone riempito la casa ed avendoli trattati con lo stesso riguardo che si riserva ad una persona cara. Dovrò chiedere allo psicologo.

Fatto sta che mio figlio, quando vede un libro, ha la stessa reazione che avrebbe un vampiro a cui viene mostrato un crocefisso.
Eppure mia figlia, benché vissuta nella stessa casa, pare immune da questa fobia. Anzi, forse perché la natura tende sempre all'equilibrio, ha acquisito il mio stesso vizio di gioventù, quello di leggere tanto, forse troppo. Si tratta di quegli errori che facilmente si commettono in giovane età, inconsapevoli delle conseguenze che questi stravizi comportano.

Intanto, forse per compensare la magnifica e consapevole ignoranza del fratello, si è diplomata e laureata con il massimo dei voti.

Nacqui pidocchioso, così come vissi e come probabilmente morirò. Con la conseguenza che non lascerò ai miei figli alcun patrimonio, per quanto piccolo possa essere. Per riscattarmi da questa colpa ho cercato almeno di dare ai miei figli quello che la mia condizione mi permetteva: la buona educazione, il rispetto per il prossimo, il senso della dignità. E debbo dire che, almeno in questo, ho avuto successo. Anzi, debbo essere sincero, un piccolo fallimento lo debbo riconoscere.

Fin da quando mia figlia è divenuta signorina ho cercato di inculcarle l'idea che non è indispensabile che una donna, per essere tale, debba necessariamente stritolare i coglioni agli uomini. Che non seguisse, quindi, l'esempio della madre.

E' stato tutto inutile. L'impresa ,più che ardua, era impossibile. Divenuta adulta ha acquisito la stessa capacità della madre e, temo, di tutte le donne, di ballare con i tacchi a spillo il TIP-TAP sulle palle degli uomini. Me ne accorgo ogni qualvolta si presenta con un nuovo fidanzato. Anzi, a proposito di fidanzati, le ho detto ultimamente che non può cambiare un fidanzato l'anno; se volesse provare tutti gli uomini non le basterebbe la vita e prima o poi occorre decidersi.
"Papà", mi ha detto, " devi sapere che c'è una vera e propria epidemia di ricchionaggine. Appena conosci un ragazzo bello, atletico, curato, gentile, colto, ti accorgi che è gay. C'è una vera e propria penuria di maschi. Mi sa che resterò zitella."

Mia figlia ha un bel caratterino, ed una forte personalità. Dopo la laurea ha sostenuto diversi colloqui presso grandi aziende e multinazionali. Alle proposte oscene relativamente alla paga o al contratto non si è limitata a rifiutare con garbo e salutare, ma ha sempre replicato sostenendo che fosse più dignitoso fare la puttana che accettare quelle condizioni di lavoro. Il lavoro, intanto, se lo è inventato. Anzi, più che un lavoro svolge contemporaneamente più lavori, sempre in autonomia, che le consentono di guadagnare bene.

Per me, che sono il padre, tutto ciò è fonte di grande soddisfazione. Sicuramente non ho dei figli bamboccioni, ma dei ragazzi in gamba che si sono sempre dati da fare, disposti a svolgere qualunque lavoro pur di essere autonomi e non dover dipendere da nessuno.

Anche il maschio, quello analfabeta, lavora, guadagna bene, fa quello che desiderava, è felice. Ho scoperto ultimamente che, addirittura, fa tutti gli scontrini e paga tutte le tasse. Questo fatto mi ha sconvolto. Nel mio ambiente, essere davvero in regola, è una cosa di cui abbiamo spesso sentito parlare, ma che non abbiamo mai avuto modo di veder applicata nella realtà. L'evasione fiscale è una tradizione di famiglia, ma anche le tradizioni, si sa, con il tempo svaniscono.

Comunque, qualche giorno fa, mio figlio, sempre quello analfabeta, mi ha fatto una domanda: "Papà, cos'è l'economia?".

"Vedi figlio mio, l'economia è una cosa semplice, molto semplice. Anche se gli "esperti" vogliono farla apparire complicata, in realtà non lo è. Purtroppo questi esperti debbono giustificare i loro stipendi ed i loro privilegi dando l'impressione che si tratti di una materia per pochi iniziati, complessa ed astrusa; è una truffa.

Innanzitutto ti dico che l'economia si occupa della ricchezza e della sua distribuzione. Occorre, quindi, definire la ricchezza.
La ricchezza è l'insieme dei beni di cui una popolazione può godere, e questi beni possono essere materiali, come gli oggetti, o immateriali, come uno spettacolo teatrale. Tanti più beni sono a disposizione della popolazione tanto più quella popolazione può considerarsi ricca.

Quasi tutti i beni sono prodotti dall'attività umana. La capacità di produrre beni si chiama produttività, e dipende dalla tecnologia, dalla conoscenza, dall'organizzazione, dalle infrastrutture, ma anche dalla geografia, dal clima, dalla cultura.

L'economia non è una scienza, ma un insieme di teorie e di esperienze. Essa è in gran parte imprevedibile perché dipende in buona parte dal comportamento umano, quasi sempre irrazionale.

I fatti economici sono influenzati profondamente da due elementi insiti nella natura umana: il desiderio di avere sempre di più ed il desiderio di vivere sulle spalle degli altri. Il primo elemento è quasi sempre positivo, perché spinge a lavorare di più e meglio, a creare prodotti nuovi o a migliorare quelli esistenti. Da questo la società trae grandi vantaggi.

Il secondo è negativo, perché alcuni, più furbi o più intelligenti o più forti, cercano di sfruttare il  lavoro degli altri e di appropriarsi di buona parte della ricchezza che altri hanno prodotto.

Il compito dello stato è quello di garantire un certo equilibrio, ed evitare che pochi abbiano troppo, con la conseguenza inevitabile che troppi hanno poco. Quando lo stato non riesce ad evitare questo squilibrio si creano delle tensioni che, ad un certo punto, rompono il sistema attraverso guerre o rivoluzioni. In tal modo si ricreano nuovi equilibri, lo stato cerca di mantenerli fin quando quelli che vogliono vivere alle spalle degli altri esagerano nuovamente, ricreando squilibri e rotture, e ripetendo il ciclo.

Ecco, figlio mio, questa è l'economia. Tutte le quisquilie tecniche che senti dagli esperti non sono che dettagli. L'essenziale è quello che ti ho spiegato."

"Hai ragione Papà" ha replicato mio figlio, " quelli che gestivano il locale prima di noi erano entrambi laureati in economia aziendale, ed hanno chiuso pieni di debiti. Io ed il mio socio non capiamo nulla di economia, ma sappiamo cosa vogliono i nostri clienti, come trattarli, e sappiamo farci voler bene. Il nostro locale è sempre pieno."

"Papà, meno male che sono rimasto analfabeta".

STATO DI DIRITTO

In pieno rinascimento qualcuno sostenne la tesi secondo la quale "il fine giustifica i mezzi". Ovvero che lo stato sia legittimato ad usare qualunque mezzo per raggiungere lo scopo che si fosse prefissato.

Perché l'idea che ogni azione trovi un limite nel rispetto di principi inviolabili ed inderogabili fosse universalmente condivisa, almeno nella cultura occidentale, sono occorsi secoli.

Il nostro orgoglio di occidentali deriva anche dal fatto di vivere in quelli che comunemente chiamiamo "stati di diritto". Ovvero Paesi in cui la legge, non solo sostituisce l'arbitrio, ma rispetta quelli che noi consideriamo diritti inviolabili dell'uomo.

Per questa ragione anche ai più efferati criminali riconosciamo quelle garanzie senza le quali una nazione non può considerarsi uno "stato di diritto".

Ecco quindi che, a qualunque imputato, e per qualunque crimine, si riconosce il diritto di mentire, il diritto di essere considerato innocente fino a sentenza definitiva, il diritto a non scontare alcuna pena fin quando non venga dichiarato colpevole, il diritto di pretendere che sia l'accusa a dimostrare la sua colpevolezza, e non egli la sua innocenza.

Nessuna persona equilibrata, di cultura giudaico-cristiana, penserebbe di mettere in discussione questi principi.

Eppure in questo momento, nel nostro Paese, tali principi sono sistematicamente violati, nella vergognosa indifferenza della stragrande maggioranza della popolazione, e con la colpevole complicità di quella fabbrica di fregnacce che è diventata la Corte Costituzionale.

Mi riferisco, come avrete già compreso, alle recenti norme in materia tributaria. Norme che sovvertono in modo palese i sacrosanti principi dello stato di diritto. Dalla punibilità dell'indagato che mente, all'obbligo di dover dimostrare la propria innocenza, dalla presunzione di colpevolezza all'immediata esecutività della pena.

Un atto di tale gravità dovrebbe farci comprendere la vera natura dello stato: mentre la grande criminalità organizzata si espande impunemente, penetrando i gangli vitali del Paese, lo stato si mostra incapace di porre un freno a questo flagello, anche in ragione delle limitazioni che lo stato di diritto impone agli inquirenti ed ai giudici.
Eppure, al fine di incrementare le entrate tributarie, lo stato non esita a violare impunemente i pilastri sui quali uno stato di diritto si regge.

Se la logica ha un senso, dobbiamo dedurne che la priorità dello stato sia quella di incamerare e gestire la maggior quantità della ricchezza che la nazione produce, e non quella di garantire la sicurezza dei cittadini, che dovrebbe essere il fondamento che giustifica l'esistenza stessa dello stato.

Ogni comunità sente istintivamente la necessità di darsi delle regole che siano da tutti condivise e di tutelare la sicurezza e la proprietà privata di ogni membro. Il soddisfacimento di queste esigenze ha prodotto quell'entità che noi chiamiamo stato. Il quale, nella sua essenza, svolge funzioni fondamentali e vantaggiose per ognuno. Potremmo ragionevolmente sostenere che lo stato, nella sua concezione astratta, sia un ente indispensabile affinché una comunità evolva e progredisca. La stessa economia sarebbe paralizzata se non ci fosse una entità che garantisca il rispetto dei contratti. Lo stato surroga l'esercizio di quei diritti che ogni singolo membro dovrebbe poter esercitare, ma che facilmente sarebbero soggetti all'arbitrio del più forte. In pratica lo stato esercita quell'opera di coercizione dovuta alla sua forza, e che non potrebbe essere esercitata dai singoli cittadini.

Lo stato, quindi, deve disporre di giudici e di gendarmi, il cui mantenimento richiede il contributo di tutti i membri. Nascono le tasse e la figura dell'esattore.

Ma noi, che siamo adulti e vaccinati, stiamo bene attenti a non confondere ciò che una cosa dovrebbe essere, da ciò che una cosa è. E tutti sappiamo che gli stati, nati per servire le popolazioni, sono stati occupati da individui che li hanno utilizzati soprattutto come strumenti per esercitare il proprio dominio sulla comunità. Che si tratti di guerrieri, di re o di oligarchie, le cose non cambiano.

Chi controlla lo stato se ne sente padrone, e lo usa soprattutto per accrescere il proprio potere, il proprio prestigio o le proprie ricchezze. Che senso avrebbe, altrimenti, combattere delle guerre per accrescere i propri domini sui territori e sulle popolazioni? Ma al popolo, cosa importa se lo stato annette regioni prima sottomesse ad altri stati, o se regioni soggette al proprio stato si rendono autonome? Pensateci bene.

Per quale motivo il Sud Tirolo viene annesso al Regno di Italia? Forse qualcuno ha ascoltato il parere della popolazione che vi abita da millenni? No. Due stati si scambiano i territori come fossero merci, ovvero proprietà private di chi governa quegli stati. Oppure pensiamo alla Sicilia: un territorio ben delimitato, una popolazione etnicamente omogenea, una unica lingua, una unica cultura. In pratica la Sicilia si può considerare una nazione. Eppure se la Sicilia decidesse di rendersi autonoma, e di amministrarsi da sola, lo stato italiano manderebbe i carri armati. Perché?

Per quale ragione un popolo non deve avere il diritto di autodeterminarsi e decidere del proprio destino? Che senso ha la parola: unità nazionale? In pratica: cosa si nasconde dietro la volontà di impedire che un popolo decida di formare un nuovo stato, diverso da quello al quale apparteneva?

Io credo che se la sovranità appartenesse davvero al popolo, come la propaganda di regime fa credere a tutti noi sudditi, non ci sarebbe alcuna ragione per impedire che ogni popolazione stanziata su un preciso territorio si rendesse autonoma. Se questo viene sistematicamente impedito è semplicemente perché il popolo detiene una sovranità limitata, mentre esiste un potere nascosto che si sente padrone dello stato, delle sue ricchezze, dei suoi territori e della sua popolazione.

Lo stato, come ho più volte sostenuto, è la più potente ed efficiente organizzazione criminale che l'umanità abbia inventato. Una oligarchia detiene il vero potere e controlla i gangli vitali di una nazione per mezzo di una struttura intermedia composta da magistrati, alti dirigenti, alti ufficiali, prefetti, media. Questa struttura trae grandi privilegi dall'esistenza dello stato, ed ha tutto l'interesse a mantenere lo status quo.

In pratica, un ente creato per rispondere ad importanti esigenze dei popoli, è stato pian piano occupato da qualcuno che lo ha utilizzato per esercitare il potere ed appropriarsi di una parte della ricchezza che la popolazione produce. Per millenni tale occupazione è stata abbastanza palese, nel senso che la gente sapeva chi comandava: la "nobiltà" delle armi. che si trattasse di un barone, di un duca o di un re, non vi era alcuna differenza.

La svolta è avvenuta nel momento in cui un nuovo potere, quello del denaro, ha prevaricato quello delle armi, asservendolo al proprio dominio. Questa vera e propria rivoluzione è stata possibile grazie alla capacità, che le oligarchie finanziarie hanno dimostrato, di sfruttare le istanze democratiche che nacquero e si diffusero a partire dalla metà del settecento.

Furono i banchieri a sostenere economicamente i movimenti democratici, quasi sempre riuniti in logge massoniche, così come furono i banchieri a manipolare i mercati in modo da creare le condizioni perché le rivolte contro i "tiranni" fossero suffragate da una grande parte della popolazione. Si tratta di un gioco che le oligarchie finanziarie hanno più volte praticato negli ultimi due secoli: sfruttare movimenti costituiti da idealisti in perfetta buona fede, al fine di farli operare inconsapevolmente a vantaggio degli oligarchi. E poiché i banchieri sono peggio dei vermi, amano  vivere nascosti. E quale sistema avrebbe meglio di altri consentito a questi vermi di esercitare il potere senza esporsi al giudizio popolare? La democrazia, ovvero la finta democrazia nella quale viviamo.

Si tratta, come ho già detto, di una efficientissima struttura criminale il cui fine è quello di consentire a pochi di vivere sulle spalle di molti. Purtroppo questa struttura criminale ha bisogno, per funzionare, di un apparato intermedio abbastanza costoso. Con la conseguenza che la struttura, nel suo complesso, assorbe enormi quantità di risorse, determinando la crescita continua e costante della pressione fiscale.

Pensiamo al solo fatto delle spese per la sicurezza: abbiamo quasi un poliziotto ogni cento abitanti. Questo vuol dire che per garantire la sicurezza in una città di 20 mila abitanti dobbiamo stipendiare 200 poliziotti. Non vi pare una cosa abnorme? Basta il semplice buon senso per capire che per garantire la sicurezza a questa piccola città 40 poliziotti sarebbero già un numero enorme, sufficiente a far si che non vi siano praticamente reati. Eppure ne manteniamo il 500%; e la criminalità la fa da padrona.

Vogliamo parlare del numero di persone che, in qualche modo, vivono di politica? Si tratta di circa un milione di individui, dal piccolo consigliere comunale al senatore, dal consigliere di amministrazione di qualche ente al consulente superpagato. Credo sia superfluo continuare questa disamina, trattandosi di cose di una tale evidenza che non aver bisogno di particolari approfondimenti.

La cosa sostanziale è che ci vediamo costretti a cedere una parte indecorosamente grande della ricchezza che produciamo per pagare dei "servizi" che ci vengono obbligatoriamente forniti al prezzo che il potere ha stabilito. E poiché la pressione fiscale ha oramai raggiunto livelli da collasso economico, lo stato, così come qualunque organizzazione mafiosa, mette in atto misure e strumenti che esulano dai canoni di uno stato di diritto.

La cosa è grave, poiché rappresenta il segno che il sistema è saltato. Anche gli stupidi capiscono che l'aumento della pressione fiscale oltre una certa soglia disincentiva la produzione di ricchezza, con la conseguenza che la base imponibile si riduce inesorabilmente. In tal caso, per mantenere costanti le entrate tributarie occorrerà aumentare ulteriormente la pressione fiscale, innescando quella spirale discendente che conduce prima al collasso economico, poi alle sommosse sociali.

Ma se queste cose le comprendiamo tutti, sicuramente le comprendono anche coloro che le stanno orchestrando: cui prodest?

E qui occorre ritornare un po'  indietro. Abbiamo detto che il potere vero è detenuto dalle oligarchie nascoste, mentre il potere che noi vediamo, rappresentato dal parlamento, non è che una struttura intermedia, che funge da capro espiatorio.
L'azione di questo governo non ha nulla a che fare con la lotta all'evasione. Per credere questo occorre essere davvero stupidi. L'azione di questo governo serve a depredare gli italiani di una parte della ricchezza accumulata negli ultimi 60 anni, per trasferirla nelle casse del vero potere, ovvero delle oligarchie bancarie.

La fretta con la quale avviene questa predazione è dovuta alla consapevolezza che il sistema è saltato, ed i grandi parassiti rischiano di non veder onorati i propri crediti. Ecco la ragione dell'uso di strumenti palesemente incostituzionali.

Allorquando i grandi parassiti avranno incassato il frutto della loro perpetua usura nei confronti dei popoli, il sistema sarà irrimediabilmente distrutto. A quel punto lo stato collasserà, generando sommosse che spazzeranno via questa classe politica, sulla quale la popolazione sfogherà le proprie frustrazioni.

E mentre tutto questo avverrà, le oligarchie parassitarie assisteranno al dramma, in attesa di veder insediare un nuovo governo. A quel punto riprenderanno a succhiare il sangue dei popoli, coscienti che i governi vanno e vengono, ma loro, nascosti come tutti i vermi, saranno sempre al posto di comando.

LE DONNE

Il destino ineludibile di ognuno di noi è quello di invecchiare. Per quanti sforzi possiamo fare il nostro vigore perderà pian piano consistenza, mentre lo scorrere del tempo apporterà nuova linfa alla nostra saggezza.

Questo non ci consola; semplicemente ne prendiamo atto. Ed è proprio grazie alla saggezza che abbiamo acquisito che possiamo affermare, oltre ogni dubbio, che preferiremmo essere giovani e stupidi, piuttosto che vecchi e saggi.

Ma tant'é. Il Padreterno, nella sua infinita saggezza, avrà avuto le sue buone ragioni. Non le comprendiamo, sopra tutto quando ci guardiamo allo specchio, oppure guardiamo compiaciuti una bella e giovane ragazza. Allora vorremmo gettare al vento la nostra saggezza, armarci di stupidità ed incoscienza, e partire all'assalto del mondo. Ma c'è un tempo per ogni cosa: ed il nostro è passato.

Parafrasando il titolo di un celebre film: non ci resta che piangere. Oppure fare partecipi i più giovani di una parte della nostra saggezza, anche se non potremo essere ricambiati dal ricevere parte della loro giovinezza. E' uno scambio iniquo che trova giustificazione nel fatto che non abbiamo un cazzo da fare, e rompere i coglioni ai giovani ci fa sentire meno vecchi.

Ecco la ragione per la quale sto scrivendo questo breve manuale sul mondo femminile, frutto di quell'esperienza di cui farei benissimo a meno, in cambio dei miei vent'anni.

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LE DONNE SONO DIVERSE

Occorre sfatare uno dei più miserabili miti della nostra maldestra modernità, che tanti danni ha prodotto nella società. Parlo dell'uguaglianza dei sessi.
Guardate una donna ignuda: vi pare uguale ad un uomo? No, in alcuni punti manca qualcosa, in altri vi è qualcosa in più. Ma sopra tutto, particolarmente se la ragazza è giovane e bella, produce in voi quei turbamenti dai visibili risvolti fisici che difficilmente la vista di un uomo ignudo vi procura. Direi anzi che, in genere, un uomo ignudo vi fa anche piuttosto schifo.

Se poi la ragazza ignuda, oltre ad essere giovane e bella, ha anche la faccia da gran zoccola, l'effetto su di voi sarà devastante. Questa diversità, di cui la donna è ben consapevole, è la migliore arma di cui la femmina dell'uomo dispone per raggiungere il suo principale obiettivo: sottomettere l'uomo al proprio dominio.

Esistono uomini tanto stupidi da credere di poter resistere al dominio femminile. Non sanno, gli stolti, che una delle migliori tecniche che le donne utilizzano nella loro strategia, è proprio quella di far credere all'uomo di non essere dominato, quando in realtà si è alla loro totale mercè. Questi uomini, poveretti, credono di poter decidere liberamente, e le donne, furbacchione, glielo fanno credere. In realtà tali uomini decidono esclusivamente quello che le donne hanno già deciso. Si tratta di una finzione, dell'eterna commedia della vita di coppia. E l'uomo, inconsapevolmente, segue il copione scritto dalla donna.

IL CERVELLO DELLE DONNE

Anche se a molti sembrerà incredibile, anche le donne hanno un cervello. Si tratta di un cervello all'apparenza uguale a quello degli uomini, ma in realtà programmato in modo molto diverso.

Esiste un celebre dipinto di Raffaello, "la scuola di Atene" in cui tra vari personaggi celebri spiccano i filosofi Aristotele e Platone. Mentre discorrono scendendo i gradini di una scenografica scalinata, il primo, con il dito, indica il terreno, mentre il secondo indica il cielo. Aristotele, indicando la terra, rappresenta il pensiero concreto, il mondo fisico e la natura, mentre Platone, indicando il cielo, rappresenta il mondo astratto, la metafisica.

Ecco, possiamo sostenere che il cervello femminile sia aristotelico, votato, in pratica, alle cose concrete, pratiche, tangibili. Il cervello maschile, invece, è platonico, cioè predisposto maggiormente al pensiero astratto.

Questa è la ragione per la quale tutti i grandi filosofi, gli artisti, i matematici, siano uomini. Le poche donne che possono essere annoverate in queste categorie sono, semplicemente, degli errori di natura. In pratica, per puro errore, è stato posto un cervello maschile in un corpo femminile.

Data questa premessa è facile comprendere come sia praticamente impossibile una sana comunicazione tra un uomo ed una donna. Sembra che parlino la stessa lingua, mentre in realtà la formulazione dei pensieri e la loro elaborazione avvengono attraverso programmi diversi.

E così qualunque discussione vi condurrà inevitabilmente alla frustrazione, chiedendovi come mai non riuscite a farvi capire. Eppure vi parrà di essere chiari, coerenti, pertinenti, logici. Ed è proprio questo il punto. Voi ragionate secondo la logica, la donna no.

Qualunque pensiero femminile non riesce a prescindere da alcuni assiomi presenti nel programma mentale di cui le donne sono congenitamente dotate: l'uomo non capisce un cazzo; il marito è un incapace ed un imbecille; l'uomo è un eterno immaturo che non può fare a meno della guida della donna; tutti gli uomini sono degli stupidi, ma mio marito lo è il doppio; è mio dovere proteggerlo dalle insidie del mondo, anche spappolandogli i coglioni.

Quando ero giovane ed inesperto credevo che mia moglie avesse una particolare abilità nel fracassarmi costantemente i coglioni. Vi riusciva talmente bene da convincermi che avesse frequentato qualche corso specifico di altissimo livello, dove matrone in disarmo svelavano ad ingenue fanciulle tutti i segreti del "dominio distruttivo". Naturalmente mi sbagliavo, e me ne resi conto dopo molti anni.

Compresi, con il tempo, che la capacità di rompere il cazzo incessantemente, utilizzando qualunque occasione e qualunque pretesto, fosse inscritta nel DNA femminile, e venisse utilizzata in proporzione diretta alla personalità del marito.

DEL DOMINIO DISTRUTTIVO

Praticamente accade questo: se in una coppia la femmina è naturalmente dominante, ed il marito è naturalmente soccombente, lo stritolamento di coglioni avviene in modo morbido e saltuario. Giusto quanto occorre perché  il marito non si monti la testa.
Se, invece, il marito è anch'egli dominante, la moglie utilizzerà tutto l'armamentario di cui dispone al fine di distruggerne l'autostima. Si tratta della condizione essenziale per poter dominare il partner, cosa che la donna trova giusta e naturale.

Ecco quindi che mostrerà sempre una smorfia di disprezzo per qualunque cosa facciate, sempre che non abbiate eseguito sue precise disposizioni. Utilizzerà ogni occasione per rimproverarvi di qualcosa: se comperate delle mele vi dirà che sarebbe stato meglio che aveste comprato delle arance, e se aveste comprato delle arance, vi dirà il contrario. Non ha importanza quel che fate, l'importante è che vi faccia capire che sbagliate.

All'inizio i mariti si lasciano ingannare, assaliti dal dubbio. Occorre tempo affinché ci si renda conto che le lamentele, le invettive, le smorfie di disprezzo e di disgusto, non dipendono da ciò che si fa, ma dalla incontenibile necessità che le mogli hanno di distruggervi moralmente.

Lo fanno, beninteso, convinte che sia loro dovere, per il bene della famiglia e vostro.

DELL'INGANNO PREMATRIMONIALE

Di tutto questo l'uomo, quando ancora è all'oscuro delle infinite "gioie" del matrimonio, non sospetta nulla. Si innamorerà di quella ragazza che " tanto gentile e tanto onesta pare..." sognando coccole e tenerezze, oltre ad una sana, sfrenata e libera attività sessuale.

Basteranno pochi giorni di vita matrimoniale perché  il dubbio vi assalga: dov'è finita quella ragazza dai modi garbati, così remissiva e disponibile? Quella che vi chiamava "caro" e vi parlava con dolcezza, cinguettando come un usignolo? Dov'è finita quella creatura aulica ed aulente, pudicamente disponibile alle vostre morbose brame sessuali?

La metamorfosi della vostra compagna vi parrà incredibile. La sua voce saudente diverrà lentamente simile al gracchiare di un corvo, mentre il suo discorrere pacato acquisterà il tono perentorio di un ufficiale nazista. E quando vorrà contraddirvi, ovvero sempre, non dirà più "ma cosa dici caro?" ma semplicemente " zitt strunz".
Vostra madre, che fino al giorno prima del matrimonio era stata oggetto di attenzioni e riguardi, diverrà l'onnipresente oggetto delle invettive della vostra amata consorte.

E il sesso? Cosa accade con il sesso?

DELL'IDEA FEMMINILE DEL SESSO.

Anche sul sesso uomini e donne hanno visioni completamente diverse.
Mentre per l'uomo il sesso è essenzialmente uno strumento di piacere, che, tra le altre cose, essendo gratuito, va praticato con una certa frequenza, per la donna le cose sono più complesse.

La donna è convinta che il sesso sia innanzitutto uno strumento di dominio, il cui uso principale consiste nel suo utilizzo come premio o come punizione, in ragione della remissività del marito.
Se fate i bravi scopate, altrimenti ciccia. E poiché  per le mogli i mariti non si comportano mai come dovrebbero, ovvero alle volte pretendono di fare di testa loro, ecco che la sfrenata attività sessuale diventa una semplice illusione, un auspicio regolarmente disatteso.

Accade spesso che, di fronte alla vostra più o meno evidente voglia di scopare, la moglie si ritragga disturbata, facendovi notare che per fare sesso occorre quel desiderio che il vostro atteggiamento le preclude. In pratica il messaggio è questo: lurido stronzo, vuoi trombare? Allora impara a non contraddirmi ed a fare tutto quello che ti chiedo.

Ma anche quando dovesse rendersi disponibile, la sua partecipazione all'amplesso trova grandi limitazioni di tipo culturale, limitando quelle fantasie erotiche e quei giochi perversi che tanto piacciono a noi maschietti, forse costretti dal vincolo dell'erezione.

La donna teme di essere considerata una zoccola, con la conseguenza che se anch'ella fosse appagata da una più fantasiosa attività sessuale, vi rinuncia, limitando la propria partecipazione a quanto una certa morale consente.

La stessa donna, allorquando avesse una avventura al di fuori del matrimonio, darebbe sfogo alle più strampalate fantasie sessuali, per la semplice ragione che verrebbero meno le due nefaste limitazioni alla sua totale disinibizione: non dovrebbe usare il sesso per educarvi o punirvi, non avrebbe il timore di essere considerata una zoccola, essendo evidente che lo sia. Ecco allora che ci darebbe sotto come mai farebbe con il marito.

La conseguenza di tutto questo è che, dopo alcuni anni di matrimonio, la voglia di scopare con vostra moglie scemi drasticamente, e cresca di conseguenza il desiderio di avventure extraconiugali. Anche perché, nel frattempo, la natura fa il suo corso, trasformando il giovane corpo di quella ragazza in cui "beltà splendea negli occhi suoi ridenti e fuggitivi..." in qualcosa di molto diverso e poco appetibile. Vi accorgete, pian piano, che di quello che era un bel culo non è rimasto che l'odore della merda. 

DELLE PASSIONI

Sempre per sottolineare la grande differenza che esiste tra l'uomo e la donna, è emblematico il diverso approccio che i due sessi mostrano nella pratica dello shopping.

L'uomo che deve acquistare un paio di scarpe entra nel primo negozio, vede il modello, sceglie il numero, va alla cassa, paga e porta via. Tempo massimo impiegato 4 minuti.

La donna difficilmente troverà le scarpe che desidera prima di aver attentamente perlustrato una decina di negozi. Più spesso pretenderà di essere accompagnata il giorno successivo per un ulteriore giro di perlustrazione, dove proverà qualche altra decina di scarpe, e chiedendovi se pensate che il colore di quei mocassini vadano bene con quel pantalone blu ottanio che comprò a Praga. Alla vostra risposta di non ricordare di quale pantalone si tratti, verrete fulminati da uno sguardo di disprezzo e dalla fatidica frase: embè, tu non mi guardi mai...

Effettivamente avrete smesso di guardare vostra moglie da lungo tempo, concentrando le vostre attenzioni sulla nuova collega di lavoro, di venti anni più giovane e con la faccia da troia, il che giustifica ampiamente ogni vostra distrazione. Ma questo, a vostra moglie, non potete dirlo. Così imparate ad annuire sempre e comunque, tanto non ve ne frega un cazzo.

Si tratta di uno di quegli espedienti di autodifesa che i mariti, dopo anni di matrimonio, mettono in atto. Un altro, ad esempio, consiste in un meccanismo mentale attraverso il quale riusciamo a togliere l'audio. Praticamente quando la moglie parla il marito non sente nulla, vede solo muovere la bocca ed annuisce di tanto in tanto.
L'uomo ha capito: è inutile combattere, si consumerebbero energie in una guerra che non ci vedrà mai vincitori. E così, stanchi, accettiamo le cose come si accetta una malattia incurabile, con stoicismo e rassegnazione.

Intanto continuerete a chiedervi cosa se ne farà mai vostra moglie di tante borse. Pur avendone riempito un armadio è probabile sentirle dire: mi serve una borsa per quel completino arancione che ho preso a Roma. Ecco quindi la impellente necessità di iniziare un nuovo tour de force tra strade dello shopping e centri commerciali, non disdegnando il mega outlet aperto a 120 chilometri da casa vostra. Nell'improbabile ipotesi in cui fosse riuscita a trovare la borsa che desiderava, esclamerà orgogliosa di aver risparmiato ben 20 euro rispetto al negozio vicino casa vostra. Nel conteggio, naturalmente, non sono comprese le 40 euro di benzina ed autostrada, la multa da 120 euro del solito autovelox, la mezza giornata persa e, sopra tutto, l'immensa rottura di palle a cui vi siete sottoposti. Ma questo, si sa, non ha prezzo.

Se l'uomo, mediamente, ha una naturale dipendenza da figa, la donna non dipende dall'uccello allo stesso modo. La vera dipendenza della donna, quella capace di creare vere e proprie crisi di astinenza, è quella per lo shopping, particolarmente di cose inutili. Non è indispensabile che acquisti qualcosa, ma le basta immergersi in un grande negozio per entrare in un vero e proprio stato di estasi. All'improvviso cambia l'espressione del suo viso, perdendo quei toni arcigni che da troppo tempo le appartengono. E se poi, con un gesto di grande incoscienza, le consegnate la carta di credito, ve ne sarà talmente riconoscente da consentirvi, in via del tutto eccezionale, di trombarla.

Una delle domande alle quali la scienza non ha ancora trovato una risposta è questa: per quale ragione la donna, trovandosi in una grande capitale europea piena di capolavori da conoscere, perde ore tra bancarelle che vendono inutili cianfrusaglie, sempre uguali da Pechino a Napoli, da Londra a Lisbona, da Canicattì a Miami?
Si tratta, al momento, di un insondabile mistero.

DELLA CASA

Due volte l'anno, più puntuale di una cartella di Equitalia, si presenta uno dei momenti più drammatici della vita matrimoniale: il cambio di stagione.
Questa attività rende la donna più intrattabile del solito, per cui in quei giorni è consigliabile usare la massima cautela.

Ad ogni cambio di stagione la moglie si lamenterà della inadeguatezza degli armadi disponibili, sostenendo la necessità di ulteriori contenitori. Il momento più terrificante è quando pronuncia la frase fatidica: dobbiamo andare all'IKEA.
Appare del tutto inutile farle notare che l'ottanta per cento dello spazio è occupato da indumenti ed accessori che lei non indosserà più, anche perché  nel frattempo avrà preso 4 taglie di troppo. Forse, sostenete, sarebbe opportuno regalare un po' di abiti alla Caritas.

Evitate di pronunciare questa frase, se non volete essere trafitti dal solito gelido sguardo di disprezzo unito a palese disgusto. Gli abiti, sostiene vostra moglie, sono praticamente nuovi. Se perdo una decina di chili li posso indossare nuovamente.

Ora, a parte il fatto che i chili di troppo sono più di dieci, voi avete la certezza matematica che non li perderà mai, ma avete anche l'intelligenza di non farglielo notare; pena un paio di settimane di astensione sessuale.

E' vero che la sua disponibilità sessuale è praticamente svanita. Quando torna dal lavoro inizia le faccende di casa, e pulisce, pulisce, pulisce. Mentre a voi la casa sembra già pulitissima, la donna, forse dotata di microscopio a scansione elettronica, vede lo sporco dappertutto. La conseguenza di tutto questo è che la sera, quando dopo la cena si siede sul divano per guardare la tivù, cade in letargo, in un sonno profondo dal quale è sconsigliabile destarla. Il sesso? Ma va là!

IL PALIATONE

Il paliatone è una tradizione di antica origine, la cui istituzione si perde nella notte dei tempi. La sua funzione è stata quella di saldare i legami familiari, consentendo alla coppia di scaricare quell'accumulo di frustrazioni e di rancori che inevitabilmente con il tempo avrebbero minato la stabilità della famiglia.

Viviamo in tempi strani, dove ogni buona tradizione sta cadendo in disuso. E così anche il rito del sacrosanto paliatone viene celebrato in una sparuta minoranza di coppie, con il rischio che cada completamente in oblio.

In pratica accade questo: dopo un certo numero di anni di matrimonio l'autostima del marito raggiunge livelli infimi, mentre la rottura di palle raggiunge l'apoteosi. A questo punto il marito, giusto per riguadagnare qualche punto di quella dignità oramai persa, all'ennesimo trituramento di koglioni che la moglie metterà in atto, si imbestialirà, battendo la moglie con vigore e, diciamocelo, entusiasmo.

La moglie, appena dopo le prime resistenze, inizierà a piangere, maledicendo il giorno che vi ha incontrati, la vostra famiglia, con ascendenti, discendenti, affini e collaterali fino al terzo grado, e la propria stupidità, che consiste nell'abnegazione che ha sempre avuto per la famiglia.

Ma in cuor suo ve ne sarà grata, perché  il paliatone le consente di scaricare quel senso di colpa che ha accumulato con il tempo, essendo ben cosciente di avervi fracassato i Koglioni senza ritegno. Ricevendo il paliatone sentirà di aver espiato le proprie colpe, sentendosi mondata da ogni peccato, ad avrà, anzi, guadagnato un motivo in più per farvi sentire dei pezzi di merda; e di questo se ne compiace.

Dopo il paliatone entrambi i coniugi si sentono più leggeri, liberati, quasi appagati, pronti, quindi, ad affrontare nuovamente il periglioso menage familiare.

Sono fermamente convinto che l'abbandono della pratica del paliatone sia uno dei motivi dell'altissimo numero di separazioni.

LA VECCHIAIA

Arriva un momento in cui ogni donna si sente appagata in modo totale, ed è quando si diventa vecchi. Le donne, quelle stronze, hanno la fibra molto più resistente della nostra, e nonostante il lavoro, i figli, la casa, mostrano una vitalità a noi maschietti preclusa.

Quando invecchiamo siamo alla totale mercé  delle donne, le quali ci accudiscono, ci curano, ci rimproverano come bambini e come tali ci trattano. Ci portano anche a fare la passeggiata, allo stesso modo con il quale portiamo a pisciare il nostro cane.

Occorre dire che fanno tutto questo con vero amore e grande abnegazione, anche perché , finalmente, possono dare sfogo completo alla loro vera natura: quella di mamme. Il fatto di essere completamente indifesi, e dipendere da loro per ogni cosa, le gratifica oltre ogni modo, sentendo di aver raggiunto la vittoria finale nella lunga guerra matrimoniale.

Ci tratteranno come rimbambiti, anche quando non lo saremo, ma ci ameranno, ci ameranno davvero, di quell'amore materno a noi totalmente sconosciuto.

IL FINANZIERE

Quando ero ragazzo avevo, come tutti, tanti amici.

La gran parte di loro studiava, sperando di raggiungere la laurea. Pochi altri, per le ragioni più varie, abbandonavano gli studi ed andavano ad "imparare un mestiere". Ve ne erano altri ancora che non studiavano e non lavoravano, e che al mio paese vengono definiti "spacca piazza": nomen omen.

Questa schiera di fannulloni, allergica a qualunque impegno e responsabilità, dovendo comunque sopravvivere anche allorquando i genitori sarebbero passati a miglior vita, speravano in un reddito che avesse la valenza di una rendita, senza alcuna relazione tra quanto avrebbero dato e quanto avrebbero ricevuto.

Ecco, quindi, la spasmodica ricerca di un "posto". Occorre, a questo punto, aprire una piccola parentesi, onde definire cosa intende, un meridionale, per "posto".

Il posto è un privilegio concesso dallo stato ad alcuni eletti, dotati di non meglio definite qualità. Il posto assomiglia ad un impiego, ma a differenza dei normali impieghi, non vi è alcun obbligo di lavorare. Il posto è una rendita garantita vita natural durante, che conferisce al suo beneficiario uno status sociale superiore a quello di tutti coloro che, volenti o nolenti, debbono lavorare davvero.

Il posto viene concesso attraverso un antico rito chiamato "concorso". Si tratta di una farsa nella quale una commissione dovrebbe selezionare, tra tanti candidati, quelli dotati di migliori capacità o di migliori titoli. Nella realtà la commissione, prima ancora che il concorso si svolga, dispone della lista dei "vincitori". Tale lista viene formata in ragione del peso politico del raccomandante, e di misteriosi meccanismi di spartizione, noti solo alla ristretta cerchia del sottobosco politico.

Lo spacca piazza, quindi, necessita di due cose indispensabili: la raccomandazione ed un titolo di studio.

La raccomandazione va conquistata dai genitori dello spacca piazza attraverso un lavoro che dura parecchi anni, in cui la famiglia del raccomandato si adopera, elezione dopo elezione, a fornire al politico designato, il maggior numero di voti. La cosa ridicola è che esistono magistrati che aprono indagini per "voto di scambio", fingendo di non sapere ciò che sanno tutti: nel meridione d'Italia tutto il voto è "voto di scambio".

Nel frattempo lo spacca piazza dovrà procurarsi un diploma, uno qualsiasi. A questa ambascia ha provveduto il genio meridionale, con l'istituzione di una miriade di scuole private, dette anche "diplomifici". Si tratta di istituzioni che, in cambio di denaro, forniscono al cliente, nell'arco di due anni, un diploma. L'unica incombenza dello "studente" è quella di presentarsi all'esame di stato, dove gli verrà regolarmente fornito un kit con tutti i compiti già eseguiti, che lui, comunque, riuscirà a sbagliare. Ma questo ha poca importanza, perché  un diploma non si nega a nessuno.

Ecco finalmente che lo spacca piazza, munito di quanto accorra alla bisogna, inizia il breve tour dei concorsi pubblici, fino alla conquista dell'agognato "posto". Si tratta quasi sempre di concorsi che riguardano assunzioni nelle varie forze armate dello stato: polizia penitenziaria, carabinieri, poliziotti, esercito, aeronautica, guardia di finanza.

Non posso affermare che tutti gli appartenenti a questi settori dello stato siano ex spacca piazza, ma ho la certezza che tutti gli spacca piazza che conoscevo sono entrati in questi settori. Fatto sta che questi individui, sostanzialmente mediocri, subiscono una vera e propria metamorfosi, trasformandosi da individui remissivi ed anonimi, in persone spesso arroganti e supponenti, forti della divisa che indossano e che ostentano quasi si trattasse di un trofeo, o di una laurea con lode nella più prestigiosa delle università.

Quasi sempre si tratta di brave persone, vittime della loro mediocrità e del lavaggio del cervello che subisce chiunque entri a far parte del mondo militare. Perché  forse pochi sanno che le regole, le abitudini e le consuetudini del mondo normale, sono completamente stravolte nell'ambiente militare, ad iniziare da una regola basilare ed inderogabile: evitare di pensare. Ma c'è qualcosa di ancora peggiore che mina l'equilibrio di tutti i militari, e che genera in loro una profonda frustrazione che spesso scaricano sugli incolpevoli cittadini, vittime sacrificali del loro profondo complesso di inferiorità: il fatto di dover sempre e comunque ubbidire, anche e sopra tutto agli ordini più irrazionali e privi di senso.

Quasi tutti coloro che entrano nel mondo militare ne vorrebbero fuggire, ma la loro mediocrità, con la conseguente impossibilità di collocarsi nel mondo del lavoro vero, glielo impedisce. La divisa che indossano ed il piccolo potere di cui dispongono, unitamente allo stipendio sicuro, conferiscono allo spacca piazza quei vantaggi ai quali altrimenti dovrebbe rinunciare, e che non riuscirebbe a conquistare fuori dal mondo militare.

Il "posto" più ambito dagli spacca piazza è quello nella Guardia di Finanza. Tale corpo gode, nell'immaginario collettivo, di privilegi sconosciuti agli altri corpi armati dello stato. E 'convinzione diffusa tra il popolo che i finanzieri facciano la spesa gratis, o comunque godano di sconti imbarazzanti. Si tratta sicuramente di legende metropolitane, anche se esistono indizi che fanno riflettere, come ad esempio il fatto che, dovendo accompagnare le mogli a fare compere, quasi sempre i finanzieri preferiscono indossare la divisa. Molti pensano che ciò accada per intimorire il commerciante, e che la divisa rappresenti una minaccia occulta. Io invece credo che lo facciano perché  orgogliosi di appartenere ad una istituzione che " con spirito di sacrificio e grande senso del dovere, fa propria la missione di garantire la sicurezza dei cittadini e la giustizia sociale".

E' lo stesso senso del dovere che impone loro di multare il commerciante che regala una caramella ad un bambino senza emettere lo scontrino, o che multa per la stessa ragione il barista che si prepara e consuma un caffè. Molti si indignano per questo eccesso di zelo, ma sbagliano. Dimenticano che "dura lex, sed lex". Anzi, personalmente proporrei un pubblico encomio a questi militi che "con spirito di sacrificio e grande senso del dovere, fanno propria la missione di garantire la sicurezza dei cittadini e la giustizia sociale".

Cosa accadrebbe se non ci fossero i finanzieri a lottare quotidianamente contro il flagello del consumo di sostanze stupefacenti? Sicuramente sarebbe facile per chiunque acquistare droghe, perché  si troverebbero ovunque, di ogni tipo, a qualunque ora. Invece apprendiamo che l'anno passato la Guardia di Finanza ha sequestrato droghe in una quantità corrispondente allo 0,00003% di tutta la droga consumata in Italia. Un risultato strepitoso che viene, giustamente, enfatizzato dalla televisione, dove militi compiaciuti ed impettiti danno ragguagli sull'operazione appena conclusa.

Si tratta della stessa enfasi con la quale mostrano i risultati della lotta all'evasione fiscale, evidenziando accertamenti per miliardi di euro. Sarebbe superfluo essere maggiormente esaustivi, comunicando che la maggior parte di quegli accertamenti in sede di contenzioso verrebbero considerati per quel che sono: semplici elucubrazioni di individui fantasiosi e creativi, privi di sostanza logica e coerenza con la realtà. E sarebbe altrettanto superfluo informare che di tutti gli accertamenti che diventano esecutivi non si incassa che la minima parte, per la semplice ragione che i cosiddetti evasori sono molto spesso dei morti di fame che a malapena sbarcano il lunario, ed i guadagni che vengono loro addebitati non sono che il frutto delle false convinzioni degli accertatori, condite con una buona dose di invidia mista a rancore.

Torniamo, comunque, a parlare dello spacca piazza divenuto finanziere. Egli, indossando la divisa, dimentica immediatamente di essere un mediocre, semianalfabeta, sfaticato. Come ho già accennato la divisa produce una metamorfosi nella sua personalità. D'improvviso egli crede di detenere qualità e conoscenze precluse ai comuni mortali, avendo frequentato un corso in cui gli viene data una leggerissima infarinatura della normativa tributaria. Il poveraccio non dispone di alcun metro di paragone con il quale poter ponderare la qualità delle sue reali conoscenze, con la conseguenza di credersi un esperto tributarista, e pretendere di contraddire commercialisti con due coglioni grandi come mappamondi. Lo fanno coprendosi di ridicolo, senza rendersene conto, mancando degli strumenti intellettuali per farlo.

E se proprio gli si fa notare, codice alla mano, che si stanno sbagliando alla grande, feriti nel loro orgoglio, inveiscono quanto più possono, giustificandosi con il fatto che il contribuente può comunque fare ricorso. Non si curano, chiaramente, delle conseguenze economiche della loro incompetenza; tanto pagate voi. In fondo, cosa pretendere da chi "con spirito di sacrificio e grande senso del dovere, fa propria la missione di garantire la sicurezza dei cittadini e la giustizia sociale" per il miserabile stipendio di 1800 euro al mese?

Sappiamo bene che fanno una vita dura, e giustamente poco dopo i cinquanta vanno in pensione. Mica come quei viziati dei carpentieri, dei contadini, dei camionisti, degli operai, che non subiscono l'usura a cui sono sottoposti i finanzieri, e che giustamente possono lavorare fino a 67 anni.
Un carpentiere lavora all'aria aperta, con folate gelide che gli sferzano il volto, o con il sole implacabile che brucia la pelle, sollevando pesi notevoli e salendo e scendendo dai ponteggi. Tutto questo lo mantiene in forma, e può considerarsi fortunato.

Ma il povero finanziere, tutto il giorno seduto in ufficio, a chiacchierare, bere il caffè, navigare su internet, con l'aria condizionata che potrebbe dargli problemi alla cervicale, o con il riscaldamento che potrebbe procurargli indesiderati sbalzi di temperatura, può egli restare in servizio oltre i 50 anni? Giammai....

La pensione, comunque, è il traguardo di un percorso irto di ostacoli che il finanziere deve seguire. Già dopo una quindicina di anni di servizio ogni finanziere ritiene di aver già dato abbastanza allo stato, e di meritare una sistemazione più consona alla sua esperienza ed ai suoi meriti. Per agevolare l'ottenimento di questa sistemazione il finanziere, come un po'  tutti i pubblici dipendenti, ricorre ad un istituto geniale, frutto del duro lavoro dei sindacati: la causa di servizio.

In pratica si tratta di manifestare qualche malanno, uno qualsiasi, e pretendere il riconoscimento che tale malanno sia una conseguenza del lavoro svolto. Se, ad esempio, il finanziere soffre di una leggera ernia al disco, cercherà di vedersi riconosciuta come causa del suo malanno il fatto che sia stato troppo a lungo seduto. Ma nel caso avesse prestato il suo servizio in piedi, cercherà di addebitare alla abituale postura eretta la causa del suo male. Così come per i diplomi, anche una "causa di servizio" non si nega a nessuno. E' una conquista che consente al pubblico dipendente una serie di vantaggi, essendo quelli già goduti evidentemente insufficienti.

Innanzitutto egli potrà godere dall'essere esentato dai servizi più gravosi, imboscandosi in qualche ufficio, o svolgendo attività investigativa un po'  sui generis, come scoprire i redditi del marito separato che nega gli alimenti alla moglie. Ma potrà anche godere di riposi straordinari, cure termali gratuite con vitto e alloggio pagati dallo stato, periodi più o meno lunghi di malattia, abbuono di alcuni anni lavorativi ai fini della pensione.

In Italia abbiamo circa 500 mila persone impiegate nei corpi armati dello stato, ovvero una persona ogni 120. Questo vuol dire che in una cittadina di venti mila abitanti dovremmo avere 180 persone addette alla sicurezza dei cittadini. Una quantità enorme che dovrebbe garantire la sicurezza totale di tutti e l'eradicazione di qualsiasi forma di criminalità. Sappiamo bene come stanno le cose. Ed il vero motivo è che nella pratica solo una piccola frazione di queste persone è realmente operativa. La loro produttività è davvero bassa, ed è ancor più diluita dalla gigantesca percentuale di fancazzisti, volontari o comandati che siano.

Comunque, sebbene "con spirito di sacrificio e grande senso del dovere, facciano propria la missione di garantire la sicurezza dei cittadini e la giustizia sociale" anche loro sono uomini, con le loro miserie e le loro debolezze. Con la conseguenza che, avendo bisogno dell'opera di un artigiano, rinunciano volentieri alla fattura in cambio di un interessante sconto. Oppure utilizzano disinvoltamente programmi per computer senza licenza. O badanti e colf in nero. Personalmente ho grande comprensione per le loro piccole debolezze. Quello che non sopporto è il momento in cui pretendono di fare la morale agli altri, ergendosi ad esempio di rettitudine ed onestà, cosa che fanno puntualmente, forse recitando una parte che gli è stata imposta loro malgrado.

Uno dei discorsi tipici dei finanzieri riguarda i lavoratori autonomi. Loro sostengono, credendoci davvero, che tutti i lavoratori autonomi guadagnino tantissimi soldi, siano ricchi, facciano la bella vita, a differenza loro che sono sfruttati e sottopagati. Viene quasi spontaneo replicare con la fatidica domanda: ma perché non avete fatto gli imprenditori? Oppure: perché non vi licenziate e vi mettete a lavorare in proprio, così da diventare anche voi ricchi e felici? A queste domande il finanziere inizierà a farfugliare una serie di giustificazioni confuse, mostrando evidente imbarazzo. Lo stesso imbarazzo che mostrerà allorquando gli chiederete come mai, piuttosto che indirizzare il proprio figlio laureato verso un'attività imprenditoriale o professionale, faccia carte false per inserirlo tra i servitori dello stato che "con spirito di sacrificio e grande senso del dovere, fanno propria la missione di garantire la sicurezza dei cittadini e la giustizia sociale".

Il finanziere in pensione, ancora piuttosto giovane, oltre ad impiegare il proprio tempo prostituendo la propria dignità per "sistemare" il figlio, cercherà qualche lavoretto rigorosamente in nero, giusto per arrotondare la sua magra e meritata pensione. Lui, naturalmente, non si considera un evasore fiscale, in quanto ritiene di aver già dato abbastanza allo stato.



Esistono nella vita di ognuno di noi, momenti che ci restano impressi per sempre nella nostra memoria in ragione del fatto che l'emozione che ci hanno suscitato è stata davvero grande. Pochi giorni fa mi è capitato di incontrare un paio di compagni della mia adolescenza che non vedevo da decenni.
Il primo era uno spacca piazza, poi divenuto finanziere ed oggi pensionato. E' abbastanza giovanile, mostrando chiaramente di aver vissuto comodamente, senza eccessivi affanni o fatiche. Si gode la sua pensione di 1800 euro al mese, cazzeggiando per il paese e facendo discorsi non meno stupidi di quelli che faceva da ragazzo, con l'unica differenza che oggi li condisce con quell'arroganza tipica di chi crede di appartenere ad una casta di eletti.

Il secondo andò ad imparare un mestiere. Lavora da quando aveva 15 anni, e porta sul volto i segni della fatica e dell'usura. Parla poco, e se lo fa ha l'intelligenza della prudenza e del dubbio. E' preoccupato perché  sarà costretto a lavorare altri 12 anni, ma data la crisi e l'età, ha sempre più difficoltà a trovare lavoro.

Cammina senza una meta precisa, con lo sguardo spento e rassegnato, e maledice il padre che, credendo di fare una cosa buona, lo mandò a lavorare. Un tarlo divora pian piano la sua mente: ma se avessi fatto lo spacca piazza la mia vita sarebbe sicuramente stata migliore, ed oggi farei il signore, e non il miserabile che deve elemosinare qualche giorno di lavoro, semmai la schiena me lo consentirà. Maledetta Italia, dove i fannulloni e gli incapaci hanno mille privilegi, e gli stronzi come me vengono calpestati e derisi.


VASCO


A casa ho un gatto, Vasco. Personalmente non amo avere animali in casa. Mia figlia, qualche anno fa, ebbe la felice idea di adottarlo, appena dopo lo svezzamento. Lo tenne con lei fin quando, per una serie di circostanze, rimase in pianta stabile nella mia casa.

Vasco viene nutrito, curato, coccolato, protetto. Eppure, ogni qualvolta lo vedo, mi procura grande tristezza. Immagino sempre che Vasco, essendo un gatto, avrebbe avuto il desiderio ed il diritto di vivere secondo la sua natura. Essere libero, scoprire il mondo, accoppiarsi, lottare, fuggire, procurarsi il cibo.

Noi che lo accudiamo siamo convinti di fare il suo bene, ma forse Vasco avrebbe semplicemente voluto essere un gatto, nient'altro che un gatto. La cosa più triste è che la sua condizione appare irreversibile. Accudito nella sua prigione dorata, sarebbe incapace di sopravvivere in libertà.

E mentre rifletto su queste sciocchezze mi assale il pensiero che la condizione di Vasco sia, in fondo, la metafora della condizione verso la quale l'umanità sta scivolando.

In cambio di protezione, sicurezza, benessere, comodità, stiamo pian piano cedendo parti della nostra natura di uomini. Affidiamo le nostre vite a coloro che potranno "accudirci", liberandoci dal gravoso esercizio del libero arbitrio. Anche se dorata, la prigione nella quale ci stiamo rinchiudendo, resta sempre una prigione. Ed un uomo che perde la propria libertà non è più un uomo.

Ma di tutto questo la cosa che maggiormente mi sgomenta è il fatto che coloro che accettano questo miserabile destino pretendono che tutti lo condividano, anche coloro che, semplicemente, vorrebbero restate uomini. Forse con meno sicurezze, meno benessere, più responsabilità personale, ma comunque uomini, uomini veri.

Qualunque limitazione alle nostre libertà fondamentali, rappresenta un furto alla nostra vera natura. E così come un ladro usa il piede di porco per appropriarsi di ciò che non gli appartiene, così i governi usano il pretesto dell'interesse generale per appropriarsi pian piano delle nostre vite, ovvero per trasformare la nostra natura.

Se i governi rappresentano i tradizionali nemici della libertà degli uomini, la vastissima schiera di coloro che suffragano le scelte liberticide dei governi, sono nemici ancora peggiori, e molto più pericolosi. Mentre i governi agiscono per un preciso interesse, la massa degli imbecilli agisce per semplice stupidità, la qual cosa, a mio parere, è più grave e nefasta della disonestà.

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